Di solito non lo facevo, ma ricordo ancora che il giorno del mio settimo compleanno presi la briga di contare tutte le candeline sulla torta. Era il 26 dicembre 1991 e tutti, in tv, ripetevano quanto fosse speciale quella data. Santo Stefano c’entrava poco, ma in cuor mio speravo che quei giornalisti parlassero della mia festa e di quanto fosse stato difficile riunire così tante persone.

Sessantanove anni, in tutto questo tempo l‘Unione Sovietica ne aveva passate di cotte e di crude. Riconosciuto ed abbreviato con l’acronimo URSS, lo Stato Federale Comunista dell‘Eurasia nordorientale nacque il 30 dicembre 1922 dalle ceneri del vecchio impero zarista e, durante la Seconda Guerra Mondiale, si consacrò come superpotenza protagonista del XX secolo. Dopo la cosiddetta Guerra Fredda, l’URSS poteva annoverare al suo interno ben quindici Repubbliche Socialiste Sovietiche tra cui la piccola, ma strategicamente importante, Armenia.

Qui, alle pendici del Monte Ararat, tra le mura della densa e popolosa Erevan, un giovane scolaro impressionava i suoi insegnanti con saggi di letteratura e disegni che parevano vere e proprie fotografie riprodotte in acqua e pastello. Fu all‘età di undici anni, infatti, che Manoukian Martiros, saltando le superiori, venne iscritto direttamente all’Accademia delle Belle Arti, diventando uno dei più grandi artisti contemporanei.

Completando la propria formazione culturale tra Mosca e Leningrado, Martiros, ormai ventiseienne, entra a far parte, di diritto e per meriti politici, dell’Associazione Filantropica Russa. Questo, però, rappresenta per l’armeno un motivo di insoddisfazione e rabbia. L’incapacità di esprimere se stesso attraverso creazioni del proprio ingegno, spingono Martiros a lasciare la sua terra per emigrare negli Stati Uniti, dove troverà fama e successo internazionali.

Le sue tele, ad oggi, sono il simbolo della libertà di pensiero, un concetto di vita che trasuda da cornici impregnate di sottomissione e voglia di ribellione, quel sentimento che ti esplode nell’animo vien fuori grazie a pennellate d’autore, micidiali più di qualsiasi altra arma puntata alla tempia di un uomo che fa della originalità il suo marchio di fabbrica.

Martiros ha vinto la sua sfida; arricchirsi spiritualmente mettendo da parte pressioni minatorie di un governo caucasico subdolo che ti costringe a massificare le tue doti in favore di un’ideologia da sostenere sempre e comunque, senza alcuna possibilità di discussione.

Di solito non lo faceva, ma lo scorso 5 agosto Martiros si è preso la briga di contare le candeline sulla torta e, soffiando sulle sessantotto fiammelle, gli è venuto in mente un libro conservato da qualche parte in un cassetto. La prefazione firmata da Kierkegaard ha acceso in lui un ultimo desiderio, un monito riportato come epitaffio sulla sua lapide, il testamento da tramandare ai futuri geni; essere ricordato in eterno come quel singolo.