La vita non è una linea retta…

Controsenso: usi e abusi delle parole quotidiane

Può essere qualcosa di estremamente fastidioso l’attesa: quando si è di corsa e scatta il rosso al semaforo; quando si ha bisogno di comunicare con un operatore telefonico e la chiamata “potrebbe essere messa in attesa”; quando la vecchietta al supermercato appoggia i prodotti sul nastro trasportatore della cassa alla velocità di un bradipo; quando si ha un impegno importante e il treno non arriva. Attendere è difficile.

A volte l’attesa porta in sé una vivacità emozionale incredibile e diffusiva: quanta gioia, quanto stupore, quanta legittima paura anche attorno al pancione di una mamma gravida. Tutti attendono questo dono, questa sorpresa e la colmano di immagini e piccoli grandi attenzioni. Per non parlare, poi, della felicità dei bambini in attesa dei regali di Natale, dell’inizio delle vacanze estive, del papà o della mamma al ritorno dal lavoro. E qui l’aggancio è immediato alle attese non colmate di altri bambini, orfani, rifugiati, poveri, schiavi, ammalati…o di altri adulti, licenziati, disoccupati, disillusi eppure sempre alla ricerca di nuove possibilità.

Sì, perché l’attesa è anche dolorosa e angosciante. Un po’ come quella dei risultati di un esame diagnostico, che potrebbero recare una diagnosi nefasta; o quella della fine attorno a un morente, piena di impotenza e, a volte, di solitudine.

E poi c’è l’attesa più terribile, quella che nessun genitore dovrebbe mai affrontare: un figlio che non torna più …perché è andato via, perché gli è accaduto qualcosa di irreparabile. Quel padre, quella madre resteranno in attesa per tutto il resto della loro esistenza, lacerati nell’incolmabile e impietosa distanza tra il tempo cronologico che passa e il tempo psicologico fermo a quel momento, per sempre.

Di qualsiasi attesa si parli, è inevitabile concludere come essa non sia una delle tante azioni dell’uomo: una persona che attende qualcuno o qualcosa, è coinvolta in una tensione capace di sfumare i confini tra lei e l’oggetto dell’attesa stessa, in una sorta di vera e propria identificazione. In definitiva l’uomo è ciò che attende, poiché a qualcosa tende (ad-tendere) sempre “con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze” (cf Dt 6,5)

Non esiste un tempo in cui non si aspetta niente o nessuno, perché la temporalità di cui è imbevuta l’essenza della persona apre continuamente al futuro. E da qui, dal futuro si muovono i progetti, i sogni, i desideri: entrano nel cuore dell’uomo da lontano, carichi di una promessa di Bene, di compimento e realizzazione, anche quando lui non lo sa.

La vita non è una linea retta a tappe scandite e scadenze fissate dal presente; non è nemmeno l’eterno ritorno delle zavorre del passato, macigni consegnati in eredità da chi, prima di noi, non ha saputo assumersi le proprie responsabilità. La vita è piuttosto un dinamismo aperto, pieno di possibilità, alcune da scegliere e altre da scartare, colmo di errori da commettere e cadute dalle quali rialzarsi. Perché il futuro chi-ama, non per incalzare o mettere fretta…è la sua natura, chiama, appella, vuole il meglio. E l’uomo risponde, (pro)getta nella storia i suoi semi di bene, perché nel cuore ha una cosa che si chiama speranza, la “virtù bambina” trascinatrice di umanità, sobillatrice di folle amanti del bello e del vero.

Chi non progetta, non spera; chi non spera, non progetta: è la depressione, il male di oggi. Nella post-modernità dell’immediatezza, del carpe diem e dell’emulazione di modelli vincenti una battuta di arresto sulla strada dell’iper-efficienza e maxi-produttività è un fallimento assoluto, capace di annebbiare la mente fino alla patologia. Ma un progetto di carne, reale, autentico richiede  tempo, ascolto, inversioni di rotta, errori, fallimenti e la testardaggine della speranza, questo realismo colorato e inarrendevole, dotato di intelligenza per vedere il male e braccia robuste per trarne il bene, lontano dall’ottimismo cieco di chi afferma semplicisticamente e con facili spiritualismi: “tutto va benissimo!”.

L’avvento è iniziato: non è solo un tempo liturgico-contenitore di iniziative propedeutiche al Natale. È una metafora antropologica fortissima: il credente, uomo fino in fondo, attende un Futuro di pieno compimento che ha un nome e un volto, Gesù Cristo. Egli tornerà per “mettere in luce i segreti delle tenebre e le intenzioni dei cuori” (cf 1Cor 4,5), per asciugare le lacrime dai volti di quei bambini perseguitati, di quegli adulti disillusi, di quei genitori morti prima della morte, per liberare la storia dalle ambiguità e donare un Tempo nuovo senza tempo e senza fretta. Nel frattempo il cristiano attende, con speranza costruisce, si dà da fare per anticipare, con la Bellezza di cui è capace e la Grazia di Dio, il ritorno definitivo del suo Dio, come quando si prepara una tavola o una stanza per un ospite in arrivo.

Con paura? No! Non verrà con chiasso, rumore e distruzione apocalittica (quelle sono immagini bibliche da interpretare correttamente); in realtà la storia stessa cammina verso di Lui, verso una consumazione nell’Amore, un Amore che è già venuto incontro all’uomo, povero, nudo, bambino, in una grotta povera di Betlemme. Ieri, oggi, domani: sempre viene, debole e fortissimo, per convocarci alla costruzione di un mondo più giusto, ispirando la passione per cose grandi, inimmaginabili, stupende. Perché “l’amore fa esistere ciò che non c’è. Forza l’inesistente a venire fuori dalla forma del niente” (M. Illiceto).

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