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“È lei, quella piccina, che trascina tutto”…

Quanto pesa il passato? Quanto costano gli errori e quanto bruciano i rimorsi? E soprattutto quanto è difficile fare nuovi progetti quando sulle spalle pesa il fardello delle cose irrisolte, fatte male, irrimediabili? Tanto. Veramente tanto.

Alla fine di un anno ciascuno si ferma a pensare, anche solo un attimo, a ciò che è stato, predisponendosi a ciò che potrebbe essere con uno stato d’animo tutto particolare.

È facile credere che chi ha vissuto un anno positivo, ne sogni uno altrettanto soddisfacente, aspettandolo con ottimismo cieco. Chi, invece, deve fare i conti con un dramma subìto, una crisi di qualsiasi genere, spera, deve sperare in un futuro prossimo migliore. Non è raro osservare chi è stato segnato dalla sofferenza bramare la fine dell’anno con ansia, come se volesse chiudere definitivamente una porta per godere di panorami nuovi, inesplorati, migliori.

Certo, collegare l’ottimismo alla gioia e la speranza al dolore è riduttivo e rischioso.

È come dire: le cose belle annebbiano la vista e chi è contento vuole, pretende solo altra contentezza, filtrando attraverso i vizi, riservatigli da una vita troppo generosa, passato, presente e futuro. Il dolore, invece, abilita semplicemente a sperare di star meglio, lì dove la speranza è vista più con i toni di una radicata, pessimistica certezza di star male ancora, edulcorata dai luoghi comuni: “non può piovere per sempre”, “dietro le nuvole c’è il sole”, “la sofferenza è un regalo di Dio per vedere quanto lo amiamo”. Ed è meglio non proseguire.

Il punto è questo: si può gioire e si può soffrire, si è liberi di semplificarsi o complicarsi l’esistenza e di desiderare, soprattutto alla fine di un nuovo anno, un futuro non troppo diverso dal già vissuto oppure una radicale inversione di rotta.

È la speranza a fare la differenza, la speranza autentica però, diversa da quella sua versione imbruttita, priva di profondità, appiattita su un’accettazione passiva di tutto e capace solo di sospiri malinconici.

La speranza non è l’ottimismo di chi dice che “tutto va bene”, né la rassegnazione per la quale tale bene è una possibilità lontana e in fondo irrealizzabile.

La speranza è quella forza motrice in grado di spingere in avanti, anche quando il passato ha caricato sul presente un macigno di responsabilità volute o, paradossalmente, inaspettate, magari ricevute in eredità per negligenza altrui. Questa energia vince la resistenza della rassegnazione, scavalca i muri del “così è sempre stato”, “così si è sempre fatto” e “così sono io”, invalicabili con le sole forze dell’impegno e della caparbietà.

La speranza ha le ali ai piedi: è un realismo concreto, lucido, sincero; guarda in faccia la realtà, ne assume le ombre e cerca di illuminarle con la luce. E anche lì dove non riesce a penetrare del tutto la coltre oscura del non-senso, non si abbatte, perché sa che lo scopo di una vita non è risolvere ogni problema, rispondere a ogni dubbio e diradare ogni mistero. Essa, infatti, sa tenere insieme le cose, da quelle semplicemente diverse agli opposti completi: una scelta sicura, un progetto realizzabile e l’impossibilità di calcolare con precisione vantaggi e rischi (pena la paralisi totale o la patologia) possono coesistere solo se un cuore sa sperare. Così come in una qualsiasi relazione la scelta di restare, di custodire l’altro e credere in lui nonostante le mancanze e le incolmabili divergenze, affonda le proprie radici nel terreno fertile della speranza.

Il momento migliore per comprendere la speranza è, così, proprio la fine di un anno: su quella soglia si è, in un certo senso, costretti tanto a fare un bilancio quanto ad andare avanti; comunque siano andate le cose, bisogna camminare e andare avanti, per sé stessi, per chi ci ama e per tutti quei germogli verso i quali si ha la responsabilità della fioritura.

Sulla soglia tra il vecchio e il nuovo anno, passato e presente si incontrano e con loro tutti gli opposti e le contraddizioni si guardano in faccia, compresi l’ansia dell’ignoto e le piccole certezze quotidiane. Ecco, lì l’esperimento speranza (per citare una grande intuizione di Moltmann, teologo protestante) si accende e accende, brilla e fa brillare e può dirsi riuscito quando l’uomo, senza pensarci troppo, continua il suo viaggio, col suo bagaglio di domande aperte e agrodolci ricordi.

“La Speranza avanza tra le sue due sorelle grandi (la Fede e la Carità)

e non si nota neanche…

E non si fa attenzione, il popolo cristiano non fa attenzione

che alle due sorelle grandi.

E non vede quasi quella che è in mezzo,

la piccola, quella che va ancora a scuola

e che cammina persa nelle gonne delle sue sorelle.

E crede volentieri che siano le due grandi che tirino la piccola per la mano.

Ciechi che sono che non vedono invece

che è lei nel mezzo che si tira dietro le sue sorelle grandi

e che senza di lei loro non sarebbero nulla,

se non due donne già anziane, due donne di una certa età sciupate dalla vita.

È lei, quella piccina, che trascina tutto.

Perché la Fede non vede che quello che è,

e lei vede quello che sarà.

La Carità non ama che quello che è,

e lei, lei ama quello che sarà” (C. Peguy)

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