Grande e grosso come un armadio, l’omone nero parla a telefono con voce forte e concitata. Pensa di essere solo nel deserto. Parla una lingua lontana, swahili forse. L’arabo dei marocchini non è così concitato. Avrà quarant’anni. L’omone nero occupa due posti nella fila di destra. Una sola poltroncina non basta a contenerlo. Siede a metà dell’autobus, accanto all’uscita, così può allungare le gambe senza impedimenti. Ha la barba di qualche giorno e i capelli rapati a zero. Un maglione dolcevita ne avvolge la muscolatura possente. Non è grasso, ha lo stomaco prominente dei bevitori di birra. È in posizione strategica, la mano poggiata sul pulsante che prenota la fermata successiva. Ad ogni riavvio, lui pigia e continua a urlare nel telefono. Prima o poi scenderà. Una signora ben vestita e fresca di toilette siede alla stessa altezza sulla fila di sinistra. Capelli brizzolati raccolti in un piccolo chignon, vestitino fintostilista alla moda, magra e chiara di carnagione. Più che chiara, diafana. La signora a intervalli regolari allunga di traverso uno sguardo di disapprovazione all’indirizzo dell’omone nero. Ogni tanto sembra pronta ad aiutarsi con un gesto di protesta. Gesto di protesta ripensato all’ultimo momento. La signora rivolge uno sguardo implorante ai compagni di viaggio, chiede aiuto per zittire l’uomo che urla al telefonino. L’appello cade nel vuoto, immancabilmente. La signora comincia a dare segni di insofferenza, si agita sulla poltroncina, si gira e si rigira. Stringe sempre di più la sua borsetta al seno. Decide di guardare fuori dal finestrino per il resto del viaggio. Un ragazzo disabile in sedia a rotelle è assicurato da una cintura al posto riservato alla categoria. Avrà vent’anni. In piedi gli sta accanto una donna che potrebbe essere sua madre. I due si somigliano. La donna è vestita un po’ alla buona, un po’ a casaccio, come se avesse infilato i primi indumenti che le sono capitati. Camicia bianca a righine rosse e giacca a quadri, gonna pieghettata color verde cupo, scarpe mezzo tacco senza più forma. La donna si guarda intorno con un certo imbarazzo. Asciuga la bava alla bocca al suo ragazzo e gli passa una mano amorevole sulla testa. Ha un’aria addolorata e rassegnata. I vicini di posto lanciano qualche sguardo incuriosito e si girano dall’altra parte. La donna fa un cenno abituale all’autista. L’autista capisce. Alla prossima fermata tirerà fuori lo scivolo per consentire alla donna di far scendere il suo ragazzo in carrozzella.

Il solito trambusto in fondo all’autobus. I soliti ragazzi che hanno marinato la scuola. Fanno baccano e scherzano felici. Solo le urla dell’omone nero coprono il casino che fanno. Sono tre, i ragazzi: due maschi e una femmina. Hanno meno di quindici anni, forse frequentano il primo anno delle superiori. I due maschi si competono la femmina in un duello a colpi di zaino. Lei si gode lo spettacolo. È bella, grandi occhi, capelli nerissimi, spallina del reggiseno che spunta dalla felpa a collo largo. I due ragazzi combattono e la guardano in tralice, per cogliere il punteggio del match sul tabellone del suo viso. Uno è rosso di capelli, occhiali da sole alla moda, felpa bianca zeppa di scritte in inglese. Ha un orecchino al lobo sinistro. L’altro è biondo, capelli lunghi, più alto del suo rivale, felpa blu. Ha un tatuaggio sul polso della mano destra. Tutti e due calzano scarpe da jogging senza stringhe. Tutti e due di buona famiglia, almeno a giudicare da come vestono. Un signore che avrà settant’anni guarda il terzetto con disapprovazione. E con invidia. Ha un cappotto grigio di lana. Calza una coppola con il paraorecchie. È munito di regolare ombrello. Il cielo è coperto. Non piove, ma potrebbe. Così bardato guarda i ragazzi in felpa con aria di disapprovazione. E con invidia. Ha ripiegato in mano il giornale locale che vorrebbe leggere. Lo spettacolo dei tre ragazzi per adesso è più interessante. Il giornale lo leggerà dopopranzo, prima della pennichella. Ogni tanto il signore di settant’anni scuote la testa, con aria di sufficienza. Ai suoi tempi certe cose non accadevano. I genitori avevano altra spessore, altra autorevolezza. L’orecchino, a quei tempi, era consentito solo ai carrettieri o agli invertiti. Il tatuaggio lo portavano solo gli avanzi di galera. Il signore osserva e disapprova. La ragazza, poi, in giro con due tipi di quel genere! Ai suoi tempi le ragazze andavano in chiesa, a scuola di ricamo e si cucivano il corredo con le proprie mani. Per fortuna i miei figli hanno sposato due brave ragazze. Che mondo!

Un giovane senegalese con le sue masserizie siede accanto ai ragazzi. Ha poggiato un sacco nel corridoio dell’autobus, un altro l’ha in grembo e occupa la vicina sedia che è vuota. Guarda lo spettacolo dei ragazzi. Il suo viso non mostra una piega. È scurissimo di pelle, ha capelli neri arruffati come la lana di una pecora. Avrà trent’anni. Ogni tanto guarda l’omone nero che urla al cellulare e forse coglie anche qualche eco di quella lingua lontana. Sembrano senegalesi tutti e due, e forse lo sono. Il ragazzo scurissimo appare preoccupato e imbarazzato. Sa di non essere in regola, anche se ha l’abbonamento al 34. I due sacchi ingombrano e infastidiscono gli altri viaggiatori. Qualcuno lo guarda con occhio di rimprovero. Alla fermata della stazione salgono due uomini in divisa. Biglietti, prego. Il ragazzo senegalese con i due sacchi si stringe nelle spalle. Poi riconosce i controllori e riprende fiato. Mostra l’abbonamento, ma i due in divisa non stanno neanche a verificare. Conoscono il ragazzo, gli fanno cenno che va bene. L’omone nero finalmente smette di urlare, chiude il cellulare e si ricompone. La signora dai capelli brizzolati smette di agitarsi sulla sedia. Gli uomini in divisa controllano minuziosamente e sono gentili con tutti. Dal fondo dell’autobus arriva un brusio di disappunto. I due ragazzi di buona famiglia si ricompongono in attesa dei controllori in divisa. La ragazza mostra per prima il tagliando, con uno zelo inconsueto sul bus. Il ragazzo rosso e quello biondo farfugliano qualcosa. La multa è di 250 euro. Non hanno documenti, saranno accompagnati dai vigili urbani, favorire il numero di telefono dei genitori. Prego. Alla fermata i due scendono accompagnati dagli uomini in divisa. La ragazza li vede scendere, appare smarrita ma rimane al suo posto. Il 34 è pronto per ripartire. Dal centro dell’autobus si leva un grido disperato. “Al ladro, al ladro”. Le porte si sono richiuse. Il ladro è già lontano. La signora dai capelli brizzolati sta piangendo.


Articolo precedenteLa strage degli Innocenti
Articolo successivoUna giornata uggiosa
Pugliese errante, un po’ come Ulisse, Antonio del Giudice è nato ad Andria nel 1949. Ha oltre quattro decenni di giornalismo alle spalle e ha trascorso la sua vita tra Bari, Roma, Milano, Palermo, Mantova e Pescara, dove abita. Cominciando come collaboratore del Corriere dello Sport, ha lavorato a La Gazzetta del Mezzogiorno, Paese sera, La Repubblica, L’Ora, L’Unità, La Gazzetta di Mantova, Il Centro d’Abruzzo, La Domenica d’Abruzzo, ricoprendo tutti i ruoli, da cronista a direttore. Collabora con Blizquotidiano.  Dopo un libro-intervista ad Alex Zanotelli (1987), nel 2009 aveva pubblicato La Pasqua bassa (Edizioni San Paolo), un romanzo che racconta la nostra terra e la vita grama dei contadini nel secondo dopoguerra. L'ultimo suo romanzo, Buonasera, dottor Nisticò (ed. Noubs, pag.136, euro 12,00) è in libreria dal novembre 2014. Nel 2015 ha pubblicato "La bambina russa ed altri racconti" (Solfanelli Tabula fati). Un libro di racconti in due parti. Sguardi di donna: sedici donne per sedici storie di vita. Povericristi: storie di strada raccolte negli angoli bui de nostri giorni. Nel 2017 ha pubblicato "Il cane straniero e altri racconti" (Tabula Dati).