Si celebra l’11 febbraio la Giornata Mondiale del Malato. La linea di demarcazione tra il malato e il sano è molto labile, nonché abbondantemente soggettiva.

Si celebra l’11 febbraio la Giornata Mondiale del Malato. La linea di demarcazione tra il malato e il sano è molto labile, nonché abbondantemente soggettiva. La salute infatti è la manifestazione di un equilibrio continuamente ricercato e forse mai raggiunto completamente.

La Giornata del Malato ci pone così in condizione di interrogarci su che cosa dobbiamo intendere per “salute”, uno stato che va oltre la mera condizione del corpo e può essere presente anche in malati o disabili che, pur rimanendo fisicamente tali, sono capaci di realizzare grandi cose, con o senza il sostegno di disponibili compagni di viaggio o di comunità accoglienti.

La malattia costituisce la sfida della fragilità che colpisce sia chi è affetto da varie patologie sia i familiari di costoro, mettendo a nudo i limiti e la vulnerabilità di ciascuno. Purtroppo l’attenzione verso chi affronta con sofferenza e dolore la malattia e la disabilità o fa i conti con le debolezze dell’invecchiamento, può far dimenticare che anche la famiglia può essere, in quei momenti, particolarmente fragile e vulnerabile, bisognosa di sostegno e di attenzioni. Infatti la malattia crea nei familiari “sani” molte tensioni, legate spesso alla necessità di modificare la propria vita lavorativa e domestica, adattandola alle necessità del congiunto malato e ai nuovi compiti assistenziali. Nello stesso tempo la malattia può essere per la famiglia un test della sua tenuta affettiva e relazionale: è una crisi che può portare alla rottura, ma può far emergere risorse inaspettate.

Il grosso pericolo che si profila all’orizzonte e che può trasformarsi in richiesta di eutanasia è la solitudine; questa genera paure e insicurezze, colpendo non solo l’ammalato in preda al suo dolore, ma anche la famiglia che gli si stringe attorno, isolandosi dal mondo sociale. Qui, come in un grande cantiere aperto, si profilano ampi spazi di “prossimità” dove la consolazione non è un insieme di parole, miranti a rabbonire chi è nel problema, ma diventa soprattutto una presenza: un “essere-con” la solitudine del malato e dei suoi familiari, che, così, non sono più soli.

La consolazione, anche in situazioni che rimangono senza risposta, diventa un’azione che va oltre le strutture sanitarie: incrocia con compassione, carità e giustizia i mondi vitali delle persone, coinvolgendo l’intera comunità attraverso un impegno culturale, politico e sociale. Meravigliarsi di richieste eutanasiche o di comportamenti disperati è solo un tentativo di proteggere le proprie disattenzioni e assolvere i propri ritardi.

A volte, alla base di una relazione di aiuto efficace, non c’è vera “empatia”, ma piuttosto “con-fusione”: una sorta di totale immedesimazione di fronte all’esperienza emotiva di chi soffre. Purtroppo c’è sempre il rischio che l’eccessiva compartecipazione al dolore dell’ammalato porti a un coinvolgimento emotivo talmente intenso da renderci particolarmente vulnerabili e contagiati. Così non solo non aiutiamo chi è nella sofferenza, ma ne usciamo feriti.

La sofferenza è parte integrande della vita, perciò, qualora cercassimo di tenere i più giovani al riparo da ogni difficoltà ed esperienza di dolore, rischiamo, nonostante certe buone intenzioni, di farli crescere in modo fragile e poco attenti a “sporcarsi le mani” nel soffrire insieme.

Le celebrazioni della Giornata Mondiale del Malato, attraverso le varie iniziative culturali, possono avere questa funzione critica: portare all’attenzione della comunità realtà e interrogativi che devono far parte, a pieno titolo, dell’educazione alla vita.