Un viaggio nel mondo della musica, con Bruno Montrone e il suo pianoforte.

Bruno, come è iniziato il tuo viaggio nel vasto mondo della musica jazz? In quale modo è esplosa, quella che poi è diventata la tua più grande passione?

È iniziato tutto per gioco, com’è giusto che sia. Mio nonno mi regalò una tastierina minuscola. Casio, nemmeno due ottave. Avevo probabilmente 5 anni o poco meno. Da quel momento è finita la pace in casa Montrone, specialmente per mio fratello maggiore cui ho rovinato sonnellini pomeridiani ed ore di studio o svago televisivo.

Mi divertivo nel riprodurre ad orecchio tutte le musiche che ascoltavo in maniera del tutto sconclusionata; da Beethoven a Sanremo. A 6 anni, fui messo di fronte all’opportunità di studiare musica seriamente, ma gli spartiti e il solfeggio non hanno mai sortito un grande fascino su di me. Fu un disastro. Non solo ho studiato con pessimi risultati musica classica ma, all’età di 10 anni, ho  sviluppato una sorta di repulsione nei confronti della musica tutta. Direi, col senno di poi, un classico della didattica musicale. A questo punto l’intelligenza dei miei genitori fu quella di propormi un percorso meno vincolante, più moderno, in cui “l’orecchio” avesse più spazio. La scelta fu semplice: il jazz. Ed ebbi la fortuna di fare gli incontri giusti: “La vita è incontro e l’incontro è un dono”. Questa è una frase tanto cara al mio maestro Davide Santorsola cui devo letteralmente tutto. Seguivo le sue lezioni al Pentagramma di Bari, dove ancora oggi, grazie a Guido Di Leone, insegno e collaboro. Una vera fucina di talenti. Il mio rapporto con Davide andava ben oltre il semplice rapporto allievo-maestro: ne ero socraticamente innamorato. Lo imitavo in tutto e per tutto. In molti, ancora oggi, mi confessano di rivedere certi suoi atteggiamenti in me, e questo per me è motivo di orgoglio e vanto. Davide purtroppo non c’è più ed è un onore per me ricordarlo umanamente e soprattutto musicalmente, anche se il paragone non smette di provocarmi imbarazzo. È a lui e a tutti quelli che hanno creduto davvero in me fin dall’inizio che devo l’accensione della miccia. Elencarli sarebbe davvero difficile ma ci proverò: Davide Santorsola, Guido Di Leone, Maurizio Patarino, Paola Arnesano, Renato D’Aiello, Nicola Muresu, Renato Chicco, Dado Moroni, Barry Harris, ma soprattutto papà e mamma, che da “profani” in materia hanno sempre incoraggiato la spaventosa carriera da artista.

La musica è un viaggio continuo: quanto i viaggi, fatti magari in paesi lontani, hanno cambiato il tuo approccio con il mondo jazz?

Come ti dicevo il viaggio arricchisce ma l’incontro ancor di più. Sono stato in molti paesi: Stati Uniti, Inghilterra dove ho vissuto qualche anno, Francia, Svizzera, Marocco… ciò che mi stupisce ogni volta è quanto il jazz avvicini le anime delle persone nonostante le distanze. La musica in generale può farlo, non c’è una reale distinzione di genere. Mi correggo ulteriormente, l’arte può farlo, a vari livelli. Parlando di musica, nella fattispecie, non esistono confini, neanche le differenze linguistiche importano. Siamo tutti cresciuti con i medesimi ascolti, siamo tutti, si può dire, allievi degli stessi dischi e, così come a scuola, bisogna studiare sì, ma anche saper copiare. Scherzo ovviamente …ma gran parte di questa musica passa dall’ascolto, dalla condivisione di informazioni e materiali. C’è il più bravo della classe che aiuta quelli seduti all’ultimo banco come me e poi c’è quello che non condivide nulla, esponendosi a ripercussioni e sfottò di ogni tipo. Bè, potendo scegliere preferisco di gran lunga i primi. Quando si suona sul palco, specie in situazioni occasionali, le tanto abusate jam session, di fatto si cerca un modo per “far funzionare” la musica. Il jazz è molto democratico in questo. C’è tanto spazio per l’individuo, all’interno di molte “regole”, il cui rispetto passa da una grande disciplina, educazione e soprattutto conoscenza dei ruoli e del linguaggio. Direi una sorta di diritti e doveri del jazzista. Sia chiaro, questo non succede sempre, spesso l’ego del musicista prende il sopravvento, ma quando succede è pura magia.

Che rapporto hai con le tue mani?

Maniacale. Le lavo mille volte al giorno. Le curo. In molti mi prendono in giro per questo. In realtà ho un rapporto particolare con le mie mani. Direi odio e amore. Ho sempre giocato a basket nella mia vita, finché la mia carriera da pianista non mi ha posto di fronte ad una scelta: otto dita su dieci, rotte a causa della pallacanestro, sono state un motivo sufficiente per indurmi a desistere da quella che è sempre stata una passione. Per non parlare del contrabbasso, senza dubbio il mio strumento preferito, ma che mette a dura prova i polpastrelli e i tendini di chi lo percuote con bolle, calli, vescicole, stigmate; troppo doloroso. Altra passione accantonata a causa delle mani da salvaguardare. Per non parlare delle partite a calcetto. In porta sono un disastro. Questo ha seriamente compromesso la mia credibilità agli occhi dei miei amici. Il bricolage, che amo, equivale ad un film ad alta tensione, all’ultimo respiro con martelli, seghetti ed altri strumenti di tortura. Insomma ho un grande rispetto e timore per le mie mani. Eppure non sono così dotate. Spesso mi fanno penare per via della loro rigidità sullo strumento, che sia genetica o più probabilmente dovuta alle lacune tecniche che derivano dal mio rifiuto giovanile dell’impostazione classica. Ragazzi non fate come me: studiate il repertorio classico che oltre ad essere meraviglioso, è anche estremamente funzionale e forgiante. Io mi ci sto cimentando adesso. Non è mai troppo tardi.

In un contesto sociale troppo spesso appiattito, coltivare una passione può far la differenza: come proteggi il tuo amore per la musica, dall’azione dei molteplici agenti anestetizzanti operanti nella nostra quotidianità?

Mi fa bene anestetizzarmi di tanto in tanto. Mi spiego. La vita è molto altro. Non esistono solo note, frasi, scomposizioni ritmiche, voicings. Di certo mi reputo un privilegiato. Fare della propria passione il proprio lavoro è una vera fortuna. Cerco tuttavia di non dimenticarmi del “gioco” della musica, da cui tutto è partito. La musica non serve a niente. Pur essendo la più leggera e pura delle arti è perfettamente inutile, pertanto anche i musicisti lo sono. Un medico serve, un ingegnere, un avvocato… no forse l’avvocato non serve! ma la musica è soltanto pura bellezza. Oggi la bellezza, purtroppo, viene stuprata. La musica richiede tempo, sacrifici, dedizione totale. Da piccolo soffrivo molto il mio essere “diverso”. Ripudiare le discoteche, preferire il piano al calcetto, un concerto alla passeggiata in centro con gli amici. Anche oggi, trentunenne, mi sento un po’ un outsider, ma lo accetto e spesso ci gioco anche un po’. Oggi si corre sempre e, per assurdo, la facilità del reperire materiale audiovisivo equivale a non poter scegliere. Scelgono altri per noi. Decidono l’idea di bellezza che più può fruttare. Ma in questo forse c’è anche un concorso di colpa: noi musicisti spesso ci troviamo a far musica “brutta”. Intendo dire che spesso siamo noi stessi a sollevare un muro col pubblico; non spiegando ciò che stiamo cercando di fare sul palco, o suonando una musica che parte troppo dal calcolo e poco dalla “panza”. Io credo sia importante non dimenticarsi della “bellezza”, e la “bellezza” è contagiosa. Se poi parliamo di società, stendiamo un velo pietoso. La musica ed il musicista, gli artisti in genere, vivono, socialmente, uno dei momenti più ardui dalla caduta dell’impero romano d’occidente ad oggi. Semplicemente non esistiamo. Non voglio tediarvi. C’è da lavorare e molto.

Ti regalo una scatola di colori, quale di questi ti rappresenta maggiormente?

Nero. Assolutamente nero. È grave?


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Una famiglia dalle sane radici, una laurea in Giurisprudenza all’Università di Bologna, con una tesi su “Il fenomeno mafioso in Puglia”, l’esperienza di tutti i giorni che ti porta a misurarti con piccole e grandi criticità ... e allora ti vien quasi spontaneo prendere una penna (anzi: una tastiera) e buttare giù i tuoi pensieri. In realtà, non è solo questo: è bisogno di cultura. Perché la cultura abbatte gli stereotipi, stimola la curiosità, permettere di interagire con persone diverse: dal clochard al professionista, dallo studente all’anziano saggio. Vivendo nel capoluogo emiliano ho inevitabilmente mutato il mio modo di osservare il contesto sociale nel quale vivo; si potrebbe dire che ho “aperto gli occhi”. L’occhio è fondamentale: osserva, dà la stura alla riflessione e questa laddove all’azione. “Occhio!!!” è semplicemente il titolo della rubrica che mi appresto a curare, affidandomi al benevolo, spero, giudizio dei lettori. Cercherò di raccontare le sensazioni che provo ogni qualvolta incontro, nella mia città, occhi felici o delusi, occhi pieni di speranza o meno, occhi che donano o ricevono aiuto; occhi di chi applica quotidianamente le regole e di chi si limita semplicemente a parlare delle stesse; occhi di chi si sporca le mani e di chi invece osserva da una comoda poltrona. Un Occhio libero che osserva senza filtri e pregiudizi…

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