Sarebbe bello spiegare, nelle varie tribune politiche, le reali motivazioni che spingono la dignità umana a perdere consistenza su barconi improvvisati lungo le coste di Lampedusa. L’eco che la nostra terra emana è così assordante che nemmeno i potenti riescono più ad ascoltare il contesto che li circonda.

Ci troviamo a Firenze e le urla provenienti dagli Uffizi desiderano vendetta artistica, fame di pane e cultura, voglia di un domani dal sapore retrò. A pochi metri dagli Uffizi, precisamente dietro l’angolo dell’allora mercato ortofrutticolo, nasceva nel 1897 Emanuel Carnevali, forse uno dei migliori poeti italiani di tutti i tempi. Se ci fosse stata una hit parade, Carnevali avrebbe sicuramente sfigurato davanti a parolieri consolidati, quali Carducci o D’Annunzio, ma la musica che fuoriusciva dalle sue labbra era penetrante ed innovativa, geniale e lapidaria.

Emanuel trascorre la sua infanzia tra Pistoia, Biella e Cossato. Il suo è un ambiente tutto al femminile, almeno fino alla morte di sua madre che lo costringe, in seguito, a trasferirsi nell’harem di un padre che ha sempre odiato e al quale dedicherà, nell’opera autobiografica Il primo Dio, molti versi di disprezzo e malcontento. Disagi, questi, che facevano da cornice all’intera vita che Emanuel a stento riusciva a condurre. Se pensate a canti romantici o a rime ben articolate, beh, siete sul binario sbagliato. La leggerezza intrisa nell’animo di Carnevali nascondeva un dolore che si mascherava di superficialità, la fatale asprezza di eventi imponderabili, la consapevolezza di desiderare un’avventura breve, ma intensa. La continua insoddisfazione che ti fa sbarcare a Lampedusa, dicevamo, quella che trasportò Carnevali sulle rive del Nuovo Continente, con un unico intento “disturbare l’America”.

Il solo modo per farlo era “divorare libri e scrivere poesie”, non prima però di aver lavorato in tutti i posti possibili ed immaginabili. Da cameriere prese dimestichezza con la lingua, come spalatore di neve, invece, si accorse del gelo che immobilizzava la sua personalità. Doveva cercare rifugio, il fuoco amico che sciogliesse una creatività innata. Uno stile selvaggio, impetuoso, estremamente diretto. Delirio di onnipotenza per chi si sentiva, effettivamente, vicino all’Altissimo, perché altissimi erano i suoi ideali e la solitudine che lo colse più avanti era conseguenza di un’encefalite fatta di momenti bui, lati oscuri a cui persino Ezra Pound tentò di dar luce.

Fame di cultura e pane, tanto da soffocarlo. Con lui se ne andarono pensieri vicini agli animi più sensibili, una brezza che scuote anche le foreste più quiete, perché è soprattutto nella tranquillità che il caos artistico contempla il suo tormento.

“Avevo per compagne la tremenda Paura delle Paure: la paura di non essere più in grado di capire il significato delle cose e la Miseria di tutte le Miserie: quella di capire che era scomparsa in me la facoltà di distinguere una cosa dall’altra e perfino la volontà di distinguerle”.