Un giorno maledetto, per due treni maledetti, sulla linea ferroviaria tra Andria e Corato. La storia di Fulvio e quelle di tanti altri.

Fulvio era mio amico. Fulvio era speciale. Fulvio è stato il primo. Il primo di cui si è saputo il nome. Il primo ad aver postato, con settimane di anticipo, foto su foto, sul suo profilo Facebook. Erano foto di treni, con versi di poeti, scrittori e cantanti. Foto che dicevano di binari morti e treni divelti.

I treni divelti li abbiamo visti, quel maledetto 12 luglio, tre giorni fa, sulla linea ferroviaria tra Andria e Corato. Morti però non sono i binari. Morta è la giustizia, perché tutto questo non è giusto e non sarebbe dovuto accadere.

Morto dentro è chi, fosse stato anche solo per un attimo, ha manifestato un’esultanza razzista, oltraggiando non solo la Puglia, la memoria delle vittime e il cuore dei loro familiari, ma tanta, tantissima gente solidale: in Puglia, in tutta Italia e nel mondo.

Morto è anche chi in tutti questi anni non si è assunto le sue responsabilità e ha lasciato che quei lavori di raddoppio della tratta Andria-Corato venissero rimandati, di anno in anno, a dispetto dei finanziamenti europei già disponibili. A dispetto dei cittadini.

Morti in realtà sono loro: i 23 volti che i Media ci hanno messo davanti. Le 23 storie, tutte diverse, tutte incredibili, tutte crudelmente e assurdamente vere. Chi è morto mentre andava al lavoro, chi tornando dagli esami, chi mentre era sul quel treno per la prima e ultima volta della sua vita, chi invece vi ha trovato la morte dopo avervi speso la vita ogni giorno. Qualcuno è morto per tornare ad abbracciare i nipotini, qualcun altro mentre il nipotino lo abbracciava per salvargli la vita in cambio della sua.

Muore chi partiva per la sua città, Bergamo o Milano, e muore la giovane splendida ragazza, volontaria e catechista, che a Milano era stata a far visita alla sorella. Muore l’altra splendida giovane ragazza che aveva appena annunciato, fiera, al telefono, a sua madre, di aver superato brillantemente un esame e già progettava il suo matrimonio. Muore chi guidava il treno e muore chi ci viaggiava ascoltando musica dalle cuffie e chi invece la musica, stupenda, la suonava con la sua tromba. Muore chi andava a Bari per una visita medica e chi ci andava per lavorare e tornare a casa, a sera, dalla sua bimba. Muore chi era venuta ad Andria per assistere il padre anziano, muore chi era appena tornato dal Giappone ed era atteso su quel maledetto binario. Muore chi veniva ad Andria per lavoro o studio e chi aveva lavorato ad Andria e Barletta insegnando francese. Muoiono giovani, tanti giovani, e muoiono adulti e vecchi, ma non abbastanza per essere strappati così brutalmente alla vita.

Muoiono in tanti, i cui nomi sono già noti, e ne muoiono altri, forse di più, i cui nomi conosciamo solo in parte: e sono quelli di chi resta.

Ognuno di loro, quel 12 luglio, ha trovato la sua Samarcanda. Credo sia ben nota a tutti o quasi la canzone del grande Roberto Vecchioni, che canta di un appuntamento di un soldato con la morte, a guerra finita, quando tutti fan festa e non sembra proprio il momento giusto per morire.

Il mio amico Fulvio non era solo vicequestore, era un grande conoscitore e appassionato di musica e un eccellente chitarrista, un fotografo, un artista. Amava di sicuro anche Vecchioni. E mi piace pensare che con le sue foto sui treni abbia voluto essere più scaltro del soldato di Samarcanda: anticipando chi pensava di fargli una brutta sorpresa. Un genio Fulvio, unico nel suo genere.

Anche se questo non gli ha impedito di arrivare lo stesso a Samarcanda. Del resto Fulvio usava il treno perché era più sicuro dell’auto. E sedeva nel vagone di testa, oso immaginarlo, perché dovrebbe essere più sicuro di quello di coda. E quella maledetta mattina ha sbrigato in fretta e furia delle commissioni per non perdere quel treno che lo avrebbe riportato al lavoro dopo un breve periodo di ferie. Fulvio era puntuale: sarebbe dovuto montare in servizio alle 14, è partito prima, non poteva mancare al suo appuntamento.

Io scrivo di Fulvio, perché era mio amico e sono fiero di poter scrivere queste due parole: mio amico. Scrivo di Fulvio perché conosco la sua storia, almeno un po’, e posso raccontarla meglio di altre. Posso dirvi che era un cuore grande, che abbiamo vissuto, con lui e con la sua famiglia, un viaggio in Palestina che mai dimenticherò. Posso dirvi che amava fare il bene in silenzio, discretamente. Posso dirvi che era davvero speciale, come ben sa chiunque – e sono in tanti – abbia avuto la fortuna di incrociare i suoi passi. Posso dirvi che anche la sua famiglia è di quelle speciali e che Emma, sua moglie, Natalìa e Angela, i suoi gioielli, hanno dimostrato sin dal primo istante di che pasta sono fatte, quanto siano all’altezza, anche e soprattutto ora, del loro uomo e papà.

Scrivo di Fulvio, ma potrei, se le conoscessi, scrivere le storie di ognuna delle vittime di quel maledetto 12 luglio. Persone speciali nella loro ordinarietà.

Scrivo di Fulvio, il mio amico, che nelle ultime settimane non faceva altro che postare foto di treni…