“IL SUD È ABITUATO A CONVIVERE CON LA PAURA”

(Cape Fear)

Si dice che l’esempio possa valere più di mille parole, così come l’osservazione più di mille teorie ed io ci ho sempre creduto.

Sono meridionale, profondamente meridionale, ho visto la neve due volte nella vita e mai, prima di ieri, quella vera.

Il fascino che regalava il paesaggio, letteralmente mi stordiva. Stavo andando al lavoro, in Valle (che in Piemonte significa dover salire oltre i mille metri, attraverso tornanti non meglio definibili e non raggiungibili con alcun mezzo di trasporto in certi casi, come il mio, se non con l’auto propria). Avevo pensato a tutto, considerati i -9 gradi annunciati (che erano già più vicini ai Tropici, perché fino al giorno prima le previsioni sentenziavano un meraviglioso -11): abbigliamento termico, scarpe waterproof, gomme termiche (quelle che sostituiscono le catene, che mai avrei saputo montare), 20km orari fissi, sempre in seconda, non dovevo mai fermarmi perché le auto in discesa avrebbero dato la precedenza a chi saliva (mi avevano istruita).

E siamo umani, vero? “Posso farcela”. Perché c’è l’incoscienza, fondamentalmente l’ignoranza incolpevole per certe situazioni e, soprattutto, il senso del dovere. Stavo andando al lavoro, nella mia scuola lassù non ci sono colleghi in sostituzione: devo pensarci bene ogni martedì sera, perché l’indomani non posso ammalarmi. Figuriamoci farsi fermare dalle condizioni atmosferiche!

“Vivo in Piemonte, tutti i piemontesi lo fanno. Perché devo lagnarmi io?”.

Primo tratto di salita, era splendido, davvero surreale, “sublime” direbbe qualcuno, usando il più adeguato degli aggettivi. Improvvisamente la neve sul manto stradale si è fatta più spessa, un tornante molto alto subito sulla mia destra, il guardrail che dava il benvenuto allo strapiombo sulla sinistra (a meno di un metro da me), 20km orari fissi, seconda ingranata, l’auto ha iniziato a perdere aderenza e poi ha diminuito la sua velocità, da sola: 10km orari, il niente. Accesa, in moto, il niente. Come quello che avevo intorno, il più bel niente che avessi mai visto, ma pur sempre niente. Ed ecco accendersi sul cruscotto la spia che indicava la totale mancanza di aderenza delle gomme al suolo. Ero in salita, slittavo, un errore verso sinistra e sarebbe stata la fine, bisognava riuscire a procedere verso destra: il tornante. Il telefono non aveva rete voce, non aveva rete internet, non inoltrava le chiamate di emergenza.

Niente.

Il nulla mischiato con il niente.

Il panico.

“Dio mio non mi abbandonare” e fin qui era solo un pensiero.

Istanti lunghi una vita, il terrore, i miei figli erano al sicuro, ma mi aspettavano nel pomeriggio. Il panico. L’unica cosa che non doveva arrivare: il panico.

La neve scendeva sempre più fitta, i tergicristalli al massimo della velocità non risolvevano granché.

“Dio mio non mi abbandonare”, questa volta era diventata un’implorazione a viva voce.

Non potevo darla vinta al panico. Ragionare, dovevo ragionare. Ed avevo anche il barbaro coraggio di guardare l’orologio sul cruscotto: 08:03, alle 08:15 devo essere in servizio. (Vergogna!)

“Se continui a spingere sull’acceleratore senza esagerare, il movimento delle gomme scioglierà il ghiaccio”, ho pensato.

“Non deve slittare dalla parte posteriore, prova, stai attenta ma prova, non hai scelta”, mi sono detta.

“Dio mio non mi abbandonare”, questa volta era un urlo!

Ho tentato quanto avevo pensato, l’auto ha ripreso aderenza, ha iniziato a camminare, ho ingranato di nuovo la seconda, ci sono riuscita e non ho più smesso di piangere e ripetere a voce alta “Dio mio non mi abbandonare”, non fino a che non ho parcheggiato.

Ore 08:14: “Dio mio scusami”.

No, non sono stata nemmeno capace di dire grazie, solo “scusami”: per l’incoscienza, il senso del dovere che supera la prudenza, la confusione presuntuosa fra paura e prudenza per cui avevo pensato che non aveva senso averne di paura, del resto avevo preso tutte le precauzioni del caso. Tutte.

Ore 08:15: badge timbrato, campanella suonata, collega che ha capito in un attimo (sfido io, avrò avuto la faccia di un fantasma uscito da una centrifuga a milleduecento giri al minuto).

– Vai in classe, ci penso io. Te li mando fra poco. Intanto hanno già fatto quattro incidenti da stamattina, tutta gente del posto. Puoi farti un vanto, hai compiuto un’impresa. Ora vai da Daniele, abbiamo preparato le tisane, bevi un bicchiere di acqua e fermati.

Ecco, questo, anche questo, è sfidare la sorte (che è sempre condita dalle altrui responsabilità). Magari non volutamente, ma lo è.

Posso farcela, devo farcela, non posso farmi fermare al primo accenno di difficoltà e sono in Piemonte, qui queste cose sono ordinarie.

Che è anche vero, ma sarebbe il caso di prendere meglio le misure di quelle difficoltà, ricordare quanto potrebbe costare e capire che, in certi casi, il dovere verso se stessi supera ogni altro dovere.

“I bambini sono al sicuro, ma ti aspettano oggi pomeriggio”. Un pensiero che rimbombava nel cervello e che ha trovato casa in parole ricevute quando oramai era pomeriggio, quando ero anche io al sicuro e i miei bambini beatamente litigavano fra loro (la meraviglia di due locuste che litigano si vedeva improvvisamente tutta):

– Ora ascoltami bene perché non lo ripeterò: tu la prossima settimana, se le cose stanno così, NON CI VAI! Fatti licenziare, datti malata, ma NON CI VAI. Mi sono spiegato? Accetto una sola risposta.

E dunque, anche quando diventa impensabile, anche quando la nostra coscienza è oggettivamente a posto, quando capiamo di non poterci augurare il cilicio perché avevamo fatto tutto quanto dovevamo, sforziamoci di tenere in conto anche l’imprevedibile.

Cosa era imprevedibile ieri? Che in un posto come questo, dove tutto funziona come fosse una macchina perfettamente programmata, gli spala neve e gli spargi sale dimenticassero che “il diritto alla vita è il presupposto fondamentale su cui si innestano tutti gli altri diritti della persona umana”.

Benvenuti al Nord.


FontePhoto credits: Myriam Acca Massarelli
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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.