Faccia a faccia con un autore che non ama la ribalta ... e che usa la parola come

Faccia a faccia con un autore che non ama la ribalta … e che usa la parola come “maledizione”.

Emanuele Tonon è uno scrittore che usa una lingua memorabile, cesellata e che scava continuamente nell’animo umano, fino ad uncinare i lati più oscuri e nascosti per farli riaffiorare alla memoria. Nel suo ultimo romanzo, Fervore (Mondadori-2016), le parole descrivono la nostalgia del non poter tornare nel Giardino, quel luogo dove il narratore e gli altri novizi cercavano Dio, «un Dio che avevamo preso l’abitudine di inventarci», e il fervore del titolo altro non è che l’entusiasmo di quel periodo lontano, un entusiasmo che non tornerà più, perso nelle brutture del mondo. La scelta stilistica del “tu” del “noi” e, a volte, del “voi” mostrano la presa di distanza del narratore da un tempo rievocabile solo attraverso i fantasmi che abitano i ricordi; i fantasmi dei novizi infervorati alla ricerca del divino mentre fanno i conti con le pulsioni corporali, con i primi peli che squarciano il volto e che, come nel caso del narratore, si confrontano con le prime opere letterarie della loro vita, opere da cui rimangono abbagliati e che segnerenno il loro futuro. La parola scritta sarà al tempo stesso rivelazione e maledizione.

Bisogna che il lettore si lasci attraversare dalla scrittura di Tonon, che egli stesso abita pienamente, per lasciarsi inghiottire dagli abissi, dalle ombre, dalle luci e dalle angosce della sua opera.

Abbiamo approfittato della sua presenza ad Andria, ospite degli Incontri D’autore del Circolo dei Lettori, per rivolgergli qualche domanda, coscienti che i suoi libri sono estranei a qualsiasi convenzione o moda, che parlano da soli, per l’autore e non solo, sui quali non ci sarebbe davvero nulla da aggiungere oltre che leggerli è necessario più che mai.

 

Chi è il protagonista del tuo ultimo romanzo e qual è il Fervore che lo caratterizza?

Il protagonista è un narratore senza nome che chiama a raccolta, nel ricordo, i confratelli con i quali ha vissuto un anno di noviziato, che è l’anno di formazione dei frati minori cappuccini dell’ordine francescano, è “l’anno della prova” nel quale i superiori vagliano fino in fondo l’autenticità della vocazione di queste persone che chiedono di poter iniziare la vita dei frati. Dicevo che questi confratelli sono richiamati nel ricordo dal narratore e quindi sono dei fantasmi essendo passati venticinque anni dall’anno di noviziato e lui cerca di raccontare la loro vita, la loro tensione, però questo suo racconto è ovviamente stravolto dal tempo. Il fervore non è altro che l’innocenza e l’entusiasmo di questi ragazzini, innocenza che li ha spinti a fare una scelta.

Nel romanzo il tempo appare come un’illusione. Perché?

Ho cercato di incrociare la teologia cristiano cattolica e giudeo cristana con le filosofie orientali, come l’induismo, nelle quali il tempo è un’illusione. In realtà anche per la fisica modera il tempo è un’illusione, ma questo è un discorso che ci porterebbe troppo lontano. Io, come autore, e il narratore del romanzo consideriamo il tempo un’illusione in contrasto con la teologia cattolica che considera il tempo un tempo di redenzione, un tempo in cui il cristiano, il fedele, è chiamato ad operare per l’avvento definitivo del Regno. Quindi c’è questo incrocio se vogliamo teologico-filosofico che io però ho cercato di volgere in chiave puramente narrativa.

In che cosa consiste la maledizione della parola scritta che ad un certo punto il tuo narratore scopre?

Il narratore, in convento, scopre la parola di Dio, ma anche la parola degli uomini. In convento inizia a leggere i primi romanzi di un certo spessore, romanzi che iniziano a incdere sul suo pensiero e sul suo modo di vedere le cose, scavano nella sua anima, iniziano a cambiarlo. Una volta lasciato il Giardino, come chiamo il convento nel libro, la parola scritta fa prendere coscienza che il mondo è pieno di vanità. La parola scritta che dovrebbe essere purezza, la tensione massima per descrivere l’abissale, l’oscuro, ma anche la possibilità di trascendere le miserie umane, rivela, invece, un mondo che misconosce la purezza e quindi per questo prende coscienza della maledizione della parola scritta.

Quali sono i tuoi modelli letterari e qual è il romanzo che avresti voluto scrivere?

Il romanzo che avrei voluto scrivere è Moby Dick. I modelli letterari apparentemente sono anche molto lontani dalla mia scrittura. Penso sempre a Melville oppure, tra gli scrittori contemporanei, ad Antonio Moresco e a tutta la sua maestosa opera che mi accompagna da molti anni.

C’è stato un elemento “rivelatorio” dal tuo ingresso nel mondo della letteratura?

L’incontro con Antonio Moresco che mi ha fatto capire che si può essere scrittori e uomini allo stesso tempo e non soltanto attori, fingitori su un palcoscenico. Mi sono accorto che sono possibili anche l’autenticità e l’onestà anche nel mondo dello spettacolo, perché alla fine la letteratura è diventata anche spettacolo, intrattenimento. Da parte mia preferisco sempre far parlare la mia opera, al di là di quello che posso dire io, per evitare di correre il rischio o di auto-incensarmi o di sminuire ciò che ho fatto.