Di quando ero più piccolo, un pre-adolescente e poi un adolescente, ricordo i lunghi pomeriggi passati assieme ai miei amici in giro per Andria a non sapere che fare. Era quello il momento del “cià s mouv è na fogghij”.

Di quando ero più piccolo, un pre-adolescente e poi un adolescente, ricordo i lunghi pomeriggi passati assieme ai miei amici in giro per Andria a non sapere che fare. Era quello il momento del “cià s mouv è na fogghij”.

Di solito c’era il calcio ad occupare le ore, oppure biliardino e ping pong in parrocchia, o al limite i videogame in sala giochi. Capitava però alle volte che rimanessimo seduti al muretto, a “guardarci come la mucca guarda il treno passare”, senza niente da dire o da fare, allora qualcuno se ne usciva proponendo di giocare a “cià s mouv è na fogghij”. Qualunque giovane andriese ha storie da raccontare su memorabili “cià s mouv è na fogghij” (“chi si muove è una foglia”).

La proposta, di solito, non era accolta subito in maniera entusiastica e unanime, perché fare quel gioco voleva dire sostanzialmente prendere schiaffi. Tuttavia, spinti da chissà quale forza oscura, si finiva sempre per accettare.

“Cià s mouv è na fogghij” potremmo effettivamente considerarla un’evoluzione del gioco dello schiaffo. I ragazzi si mettono l’uno di fianco all’altro a formare due schiere, messe a loro volta l’una di fronte all’altra, come due rette parallele. In questo modo si forma una specie di corridoio, una via obbligata, che un malcapitato, scelto con apposita conta, deve attraversare per il lungo.

Le regole sono poche e aleatorie: il malcapitato deve dire “cià s mouv è na fogghij” (“chi si muove è una foglia”) e iniziare a percorre lentamente il corridoio umano, cercando di beccare qualcuno in flagrante mentre lo percuote. In caso questo avvenga, il beccato diventa il malcapitato, mentre questo va a comporre la schiera. Chi è nella schiera a sua volta deve percuotere quello al centro senza farsi vedere: sono ammessi schiaffi, scappellotti, cozzetti, picozze, pugni, ma non colpi bassi. Inoltre non si possono mostrare i denti, anche in questo caso si finisce sotto. Il particolare dei denti può sembrare incomprensibile, in realtà un senso ce l’ha. Di solito infatti il gioco porta a situazioni altamente comiche e trattenere le risa (così da non scoprire i denti) diventa la vera impresa. Diciamo che la regola dei denti è una possibilità in più che viene offerta al malcapitato al centro di salvare la pelle.

Il gioco, com’è facile capire, non è proprio un’attività pensata per menti sopraffine. È un gioco certamente manesco, ma che non c’entra con il bullismo, uno decide in libertà se prendervi parte o meno. Personalmente per anni l’ho considerato un modo di passare il tempo rozzo ed inutile, eppure in seguito sono dovuto giungere alla conclusione che una valenza pedagogica, oltre che iniziatica, ce l’ha.

Gli adolescenti maschi, per definizione, si menano. Quasi mai lo fanno per qualche motivo particolare, o per farsi male davvero, il menarsi è una pulsione incontenibile e in realtà si pensa ad essa come a un gioco. Un gioco idiota potrebbe dire qualcuno, certo, ma di cui è impossibile fare a meno. Diversi pedagoghi riconoscono questo fatto e non c’è niente da meravigliarsi. I rapporti fra maschi fra i 10 e i 18 anni sono fondati sul menarsi. Personalmente, tutt’oggi che ho trent’anni, quando rivedo i miei amici del liceo, ci salutiamo scambiandoci pugni, prima che questi si trasformino in un abbraccio.

Questo non vale solo per la mia generazione, è così da sempre. Lo storico Philippe Ariès, nel suo libro Padri e figli nell’Europa medievale e moderna, spiega come nel Seicento gli scolari arrivassero addirittura a scuola armati, i Gesuiti imponevano il disarmo all’ingresso. “I più piccini” si legge nel testo “che avevano 5 anni, potevano già portare la spada. Questa non serviva solo all’ornamento e al prestigio”. E ancora “i reggenti e i prefetti si trovavano spesso a fronteggiare vere e proprie rivolte a mano armata; le sedizioni erano numerose e violente”.

Stando a ciò, è allora possibile vedere nel “cià s mouv è na fogghij”, un modo trovato dai giovani andriesi di disciplinare l’uso della violenza. Posto che l’impulso ad usare la forza in qualche modo in un adolescente deve trovare uno sfogo, questo gioco permette di farlo in maniera tutto sommato controllata, limitando i danni. Assolve ad una funzione sociale ed ecco che, nonostante la sua apparente stupidità, si tramanda da generazioni, resistendo anche nell’era dei tablet. E poi è formativo.

Giocarci insegna in primis a prendere schiaffi da ogni dove e a mantenere calma e lucidità. Poi insegna ad immolarti per una causa, quella della tua salvezza. Dovendo infatti vedere uno nell’atto in cui ti schiaffeggia, la tecnica migliore è voltarti all’improvviso, e allora la percossa che era diretta alla tua nuca, ti raggiunge in pieno volto. Però fa niente, a quel punto ne sei uscito. Ancora, insegna a riconoscere le tipologie umane. Ci sono infatti diversi stili di percorrere il tragitto dei supplizi: c’è quello riflessivo che lo attraversa lentamente, un passo alla volta, guardando fisso davanti a sé per avere la visuale più ampia possibile; c’è quello spregiudicato che procede velocemente a grandi passi, muovendo capo e corpo in ampie giravolte; c’è il preciso che muove continuamente la testa a scatti, stile gallina, provando a cogliere ogni movimento; c’è il pavido che dopo il primo passo dice di aver visto i denti a uno della schiera, così da cavarsi fuori in maniera indolore. “Cià s mouv è na fogghij” sviluppa inoltre le doti dialettiche e la pratica democratica. Come si è detto, infatti le regole sono aleatorie e ogni caso dubbio viene discusso a lungo a urla in faccia, creando fazioni e stimolando punti di vista diversi, mentre la decisione finale viene presa a maggioranza.

Ci sono solo due consigli che un veterano come me si sente di dare ai novizi di tale disciplina: (1) non giocateci mai con le ragazze, e (2) giocateci solo fra amici di vecchia data. (1) Le ragazze all’inizio sono entusiaste, fin quando non devono andare sotto. A quel punto non conta quanto piano giochi, al secondo schiaffetto, che magari finisce per lambire la tempia destra, piantano una scenata isterica dicendo che un conto è giocare un altro è fare male, e se ne vanno lasciando tutti imbarazzati. Non è discriminazione, è solo che è un gioco tarato sugli uomini. (2) Per quanto riguarda gli amici, questi devono essere fidati, sulle loro buone intenzioni non deve esserci ombra di dubbio. Giocando con gente appena conosciuta, arriverà presto e inevitabile la sensazione che si stia esagerando, che si sia lì per il gusto di far male, e finirà in rissa.

Da ultimo, evitate la cappotta. Anzi no, almeno una volta provatela. Chi non l’ha mai provata non può capire. Si è passibili di cappotta se si accede al “corridoio” senza aver detto “cià s mouv è na fogghij”, o se si percorre tutto il tragitto correndo. La cappotta è la soluzione finale, è la cosa più vicina alla fine del mondo che si possa provare, è un viaggio di andata e ritorno dall’inferno. Nel momento in cui viene proclamata e ci si accorge che gli animi di tutti sono ormai troppo eccitati per provare a fermarla, non resta che chiudersi a riccio e guardarsi la vita scorrere davanti agli occhi. Si viene travolti da una pioggia fitta e scomposta di sberle, arrivano da ogni parte e non sai mai la prossima dove colpirà. Dura una ventina di secondi, poi tutti si allontanano e rivedi la luce. Tu li guardi sghignazzare, intontito, trattenendo le lacrime e dimostri a tutti, per primo a te stesso, che sei ancora in piedi. Come si dice in Fight Club, capisci allora di non essere fatto di cristallo. A quel punto, che vita sia.