Hai mai sentito, dentro di te, il peso della solitudine nonostante le migliaia di persone che ti affiancano e parlano quotidianamente? Se devo essere sincero, sì. Quando tante persone riservano per me complimenti, attestazioni di stima, fiducia autentica io rimango perplesso. Parto sempre dal Vangelo che è il mio punto di riferimento. Gesù una volta ha detto: “Guai a voi quando diranno bene di Voi, state attenti”. Combatto costantemente con l’icona che è stata costruita intorno alla mia persona, in quanto la stessa crea in me solitudine: mi sento, a volte, equiparato ad un contenitore in cui entrano uomini che versano in condizioni di disagio e giustamente pretendono soluzioni. Penso che la solitudine sia un mostro divorante in grado di creare rabbia animalesca nelle persone, la rabbia annebbia la vista e travolge l’essere umano. Oggi sento di essere isolato soprattutto da chi può fare molto per la collettività, ma preferisce restare comodamente seduto su una comoda e provvisoria poltrona. Come concili l’amore profondo che hai per Gesù Cristo con la forza distruttiva della povertà? Da cosa trai speranza? Io la speranza la trovo nel confronto con la parola di Dio. Nei momenti di grande debolezza e delusione, sento la forza del Vangelo che mi spinge a rialzarmi e a continuare a camminare. Il Vangelo infonde in me il coraggio di continuare a percorrere questa strada tortuosa. Tutto quello che compio nella mia quotidianità è dono di Dio, non è frutto solo del mio carattere definito, da qualcuno, “intraprendente”. Questa certezza richiama, nella mia mente, il concetto di povertà evangelica. La povertà evangelica è diversa dalla povertà materiale: infatti, si ha la prima quando si riconosce che Dio è il centro dell’esistenza umana, tutto quanto possediamo è un suo dono; si ha la seconda quando mancano i mezzi essenziali per condurre un’esistenza dignitosa. La povertà materiale, come la solitudine, è un mostro che annienta l’uomo rendendolo un essere privo di vita e speranza nel futuro. C’è oggi una povertà, un’indigenza che Dio non tollera e che va combattuta; una povertà che impedisce alle persone e alle famiglie di vivere secondo la loro dignità; una povertà che offende la giustizia e l’uguaglianza e che, come tale, rappresenta una minaccia per una convivenza pacifica. Sarebbe bello concludere questo intenso dialogo con un tuo desiderio o, meglio, con un tuo sogno, perché, nonostante la negatività che caratterizza il nostro presente, abbiamo ancora il dovere, in quanto uomini, di continuare a sognare. Il mio sogno è che Casa Accoglienza chiuda perché oggi quel luogo è speranza per molti, ma quest’ultima non va riposta in una casa di accoglienza quanto in se stessi e negli altri uomini. Sogno che quella casa ritorni ad essere un centro di semplice aggregazione, di crescita culturale, perché, credimi, vedere un uomo mettersi in fila per farsi la doccia o per ricevere un kilo di pane mi annienta come mi distrugge l’ascoltare, ogni santo giorno, storie di padri di famiglia che non si sentono più nulla: né padri né mariti né uomini. Sogno il cambiamento radicale e reale, sogno che tanti uomini trovino in se stessi la forza di scrivere una nuova pagina per l’umanità. Come possiamo dirci Cristiani se, dopo duemila anni, ancora non troviamo una soluzione per chi fugge dal male e dalla povertà? Come possiamo dirci Cristiani se ancora oggi vediamo nell’altro, in quel Gesù che fugge, un estraneo, un problema? Come possiamo dirci Cristiani se non ci ribelliamo a coloro che permettono che accadano queste tragedie, attuando politiche sbagliate, xenofobe, che sono contro l’Uomo e quindi contro Dio? Facciamo sentire la nostra voce, di Cristiani e di Uomini, chiedendo con forza che tornino a ristabilirsi i valori, che torni ad essere la vita umana l’insindacabile priorità di ogni politica: cittadina, nazionale, mondiale. Post scriptum. A colui che conduce un’intervista, spetterebbe di registrare in silenzio le risposte che l’intervistato offre. Tuttavia, questo non è possibile davanti ad un uomo come don Geremia. Molto spesso siamo restii nell’esternare in pubblico le nostre sensazioni e sentimenti. Spesso soffochiamo l’affetto con la freddezza, altre volte preferiamo tacere per non apparire sdolcinati, raramente seguiamo l’istinto, ma, quando decidiamo di farlo, diventiamo autentici, ci denudiamo. E diventiamo amici. Don Geremia, per tanti sei un’icona, per altri, un sacerdote di strada, per altri ancora, un oracolo al quale confidare tutto. Pochi ti considerano semplicemente un uomo e guardano i tuoi occhi gioiosi o colmi di dolore. Pochissimi condividono la tua intimità. Grazie, don Gerry.