Sabato sera al Teatro Palazzo è andato in scena lo spettacolo scritto, diretto e interpretato da un brillante Michele Riondino, nei panni di Don Gallo

“Io mi chiamo Andrea e sono nato a Campo Ligure il 18 luglio del 1928. Sono stato un marinaio, ho fatto il partigiano e quindi la guerra e mi sono anche innamorato. Per la chiesa il peccato ha luogo quando c’è materia grave, piena consapevolezza e deliberato consenso. Per me invece il peccato è solo quando non c’è l’amore”.

Non deve essere facile, per un tarantino, recitare per più di un’ora con la cadenza genovese. Così come non deve esser stato facile per un prete genovese, vivere le contraddizioni di una città tanto devota al mare quanto all’industria. Genova e i suoi caruggi, dedalo inestricabile pregno di disperazione. Di emarginati, di uomini che alla meglio sono ridotti a bestie da soma respinte dalla società. La stessa società tagliata a fette da Fabrizio De Andrè, con i colpevoli che non erano poi così colpevoli e i giudici che non avevano la coscienza così pulita da poter giudicare, “non conoscendo affatto la statura di Dio” diceva Faber.

“Ed io non riesco a immaginarmelo il Padre Nostro che se ne sta lì come un giudice che dice ‘tu si’, ‘tu no’ e magari mentre lo fa ci si diverte anche”, racconta Don Gallo.

Riondino pone Don Gallo in una sorta di limbo dantesco, col suo sigaro in mano ma senza fiammiferi per accenderlo, come metafora per rappresentare questo status. E racconta le storie di strada, di quegli uomini che avevano il privilegio di ammirare il mare e le montagne dalle finestre delle proprie case. Ma che oltre alla bella vista hanno solo una sigaretta, tante conoscenze e tanto bisogno d’amore. Amore che la vita ha offerto loro in piccole dosi e a cui la società ha tolto a piene mani.

Don Gallo snocciola aneddoti, come parafrasi in carne e ossa dei testi di Faber: racconta dei benpensanti altolocati che passavano i pomeriggi a via del campo, delle donne di via del campo che facevano i conti con lo specchio e sé stesse tra le lacrime e i sussulti di orgoglio, di uomini pazzi d’amore, pazzi di gelosia, pazzi e basta, a cui non è mai stata data una vera possibilità. Quei ragazzi che gli son “scivolati dalle mani”, quelli che han smesso di respirare perché han finito l’aria, le forze e le energie. Quelli che escono dal negozio di liquori e quelli che lo vendono e quelli che “tu che lo vendi cosa compri di migliore?”

Poi le parole chiave della sua esistenza: comunione, “una parola che ogni volta che si mette a bere e cantare e ballare lo fa sempre ad altre parole”. Amore, che deriva dal sanscrito e significa passione, e accoglienza che significa raccogliere. E poi la più bella di tutte, che da sola vale i fuochi d’artificio: gioia.

Don Gallo ricordato col pugno alzato, col sigaro in bocca, con la bandiera della pace, con la sciarpa rossa. Don Gallo con i drogati, i trans e le prostitute. Don Gallo e il G8, i diritti civili e i contrasti con le istituzioni ecclesiastiche sulle droghe leggere, i preservativi e il crocifisso in classe.

Don Gallo e l’utopia sempre avanti rispetto a lui di due passi. E allora cammina metri, kilometri, ma niente. L’utopia è sempre là, all’orizzonte. E allora l’utopia serve: a mettersi in cammino, ad andare sempre avanti. Col vantaggio che puoi sempre ricominciare.

“Sono state giornate furibonde, senza atti d’amore. Senza calma di vento. Solo passaggi di tempo”.

Lo spettacolo, interattivo e dal ritmo incalzante, porta lo spettatore a immergersi in prima persona nella figura e nelle contraddizioni, dubbi ed esitazioni di questo prete negli anni definito anarchico, comunista, mangiapreti, irregolare, immorale.
Quel che spicca, invece, è la figura di un missionario a casa sua, che oggi possiamo riassumere in una parola e un aggettivo: un angelo anarchico.