La Commissione europea investe cinque milioni di euro per far fronte alla sfida del multilinguismo nell’Unione
Lo scorso 31 marzo è stato ufficialmente lanciato MIME[1], acronimo di « Mobility and Inclusion in a Multilingual Europe ». Il progetto coinvolge 16 paesi (tra cui l’Italia) e 22 organizzazioni e si propone di affrontare la dicotomia tipicamente europea tra multilinguismo e unità. Il coordinamento è affidato all’Università di Ginevra, Svizzera, nella persona del professor François Grin, economista nel settore delle politiche linguistiche e dell’economia del multilinguismo.
Cosa sono, dunque, il multilinguismo e le politiche linguistiche? Interessano anche l’Italia e la Puglia?
Rispondere alla prima domanda non è semplice. Con il termine “multilinguismo” ci si riferisce generalmente alla condizione di un’area geografica in cui la società interagisce in più lingue (spesso lo stesso termine viene utilizzato impropriamente per descrivere individui in grado di esprimersi, a diversi gradi di competenza, in più lingue: in tal caso, la convenzione accademica preferisce parlare di “plurilinguismo”).
Le politiche linguistiche comprendono tutti gli interventi della sfera pubblica volti a gestire l’uso delle lingue nella propria area di competenza. Tali interventi possono avere una natura strettamente linguistica (per esempio, la salvaguardia dell’uso corretto della lingua), ma molto spesso si inseriscono nel tessuto socio-economico, coinvolgendo vari ambiti dell’amministrazione (il diritto all’istruzione nella propria lingua, l’insegnamento delle lingue, l’uso di determinate lingue in ambito burocratico).
Sebbene sulle prime si possa avere l’impressione che gli effetti di tali interventi siano limitati, le conseguenze politico-sociali sono spesso tutt’altro che indifferenti. Si pensi alle politiche linguistiche del Governo serbo sotto il presidente Milošević che privarono l’albanese di statuto giuridico nella provincia del Kosovo, con l’obiettivo di aumentare la presenza serba in una provincia politicamente instabile in cui l’etnia albanese rappresentava l’81% della popolazione.
Per quanto apparentemente unilingue, l’Italia conosce un certo tasso di multilinguismo, in quanto appena il 72,8% della popolazione dichiara di utilzzare esclusivamente o prevalentemente l’italiano[2]. Le lingue minoritarie ricevono trattamenti diversificati. Laddove francese, tedesco e ladino, friulano e sardo esistono in regime di coufficialità con l’italiano rispettivamente in Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia e Sardegna, per le altre si parla di lingue minoritarie riconosciute.
È il caso, per esempio, del greco in Puglia, nel Salento, parlato da circa diecimila persone nella varietà del “griko”. Diversamente dall’ufficializzazione, il semplice riconoscimento delle lingue minoritarie non produce effetti che ne valorizzino l’utilizzo, affidandone le sorti alla volontà del popolo. A questo punto ci si chiederà: vale la pena impegnarsi per il mantenimento della diversità linguistica? A questo proposito, l’economia del multilinguismo è divisa. La teoria economica classica prevede la concretizzazione dell’unilinguismo, in virtù di principi di efficienza. D’altro canto, non pochi accademici mostrano come il multilinguismo possa contribuire al benessere, tanto in termini strettamente aziendali quanto sociali. Infine, non è forse grazie alla diversità e al confronto che spesso riusciamo ad acquisire una maggiore consapevolezza di noi stessi?
[1]Per maggiori informazioni, si veda http://www.mime-project.org/
[2]Dati ISTAT – Scarica il PDF