“Qui, sulla collina, era approdato padre Davide, dopo un burrascoso girovagare per l’Italia, l’Europa, le Americhe e il Canada, non rappacificato ancora, ma più sereno. In quell’angolo di Medioevo aveva da poco riunito attorno a sé la Comunità di Emmaus, punto di riferimento di cristiani inquieti dopo il Concilio e avamposto d’una Chiesa in cerca d’un nuovo volto”.

Avevo 17 anni quando mi capitò di leggere la prima poesia di David Maria Turoldo. Erano i versi dedicati alla madre. Fu un caso fortuito. In quegli anni, in Collegio, a turno, si aveva l’incarico di ripulire la Sala dei Professori: passare la scopa e il moccio sul pavimento, vuotare i posacenere (allora si fumava molto e allegramente), raccogliere e mettere in un sacco i quotidiani, sistemare nell’armadio le riviste. Curioso, non sapevo trattenermi dallo sfogliarli. Non era permesso, a quei tempi, leggere i giornali, troppo pericolosi. Fu in una di quelle furtive letture che mi capitò sotto gli occhi la poesia di Turoldo: ritagliata e incollata su un cartoncino divenne l’oggetto d’una liturgia intima e personale in onore della madre troppo presto lasciata. Il ritaglio di giornale, ingiallito, è tra le pagine di qualche libro o quaderno e un giorno o l’altro comparirà.

Qualche anno dopo, un imprevisto baratto mi fruttò il primo libro di poesie di Turoldo. Un giovane sacerdote colto, lettore di libri francesi, per questo guardato con diffidenza, mi chiese di poter mostrare a un amico la mia collezione di francobolli, un modo, allora, di tener  desta la fantasia e sottrarmi a giorni troppo uguali. L’incauta confidenza, qualche tempo dopo, che più che i francobolli erano i versi a interessarmi, l’autorizzò a non reclamarne la restituzione. Un giorno notai sulla sua scrivania il secondo volume di versi di Turoldo che Mondadori aveva appena pubblicato nell’elegante collana dei Poeti del nostro tempo. S’accorse e mi disse che se volevo lo potevo prendere: accolto come un implicito risarcimento, non mi affrettai a restituirlo, e così, Udii una voce, fu il primo dei molti libri di Turoldo destinati a formare un pantheon privato. Ancora tra i miei libri, è un po’ ingiallito: sul frontespizio, a penna, reca il nome della donatrice, Edvige, e una data, 26 luglio 1953. Nei tratti a matita e nelle annotazioni sui margini racconta qualcosa di me di anni più maturi e meno ingenui.

Intanto, durante gli anni di collegio, non potendo procurarmi i suoi libri,  ne trascrivevo su quaderni dalla copertina nera i versi che più amavo: nell’adolescenza, e anche dopo, furono un farmaco, per la mente e per l’anima. All’esame maturità, provocando un divertito commento del Presidente, misi in bocca ad una Alcesti prossima alla morte i versi che Turoldo aveva scritto per Ruth, la moabita: O bella morte, tu baci ogni cosa! Ignaro della vera natura della tragedia, che nessuno m’aveva spiegato, ne avevo fatto un’eroina cristiana che non solo accetta ma benedice la morte.

Un pomeriggio d’aprile del 1967 andai ad incontrarlo. Dalla cittadina dove vivevo, alle porte di Milano, occupandomi di giovani, mi recavo quando potevo all’Università e con la docente di Lingua Italiana, una studiosa stimata, impegnata nel giornalismo e nella politica (adolescente era stata staffetta nella Resistenza) avevo concordato una ricerca sulla poesia di Turoldo. In moto arrivai nel comune di Sotto il Monte, noto in quegli anni grazie a Papa Giovanni e prima d’entrare nell’abitato imboccai la strada che saliva lungo la costa del monte, pochi chilometri, e da lontano vidi presto disegnarsi la sagoma possente della chiesa medievale e le mura, quel che ne restava, del Priorato di Sant’Egidio in Fontanella. Tutt’attorno un paesaggio collinare con dolcezze toscane, cipressi, castagni, noci, fichi, qualche betulla, e soprattutto digradante e ordinata,  a perdita d’occhio, la vigna.

Qui, sulla collina, era approdato padre Davide, dopo un burrascoso girovagare per l’Italia, l’Europa, le Americhe e il Canada, non rappacificato ancora, ma più sereno. In quell’angolo di Medioevo aveva da poco riunito attorno a sé la Comunità di Emmaus, punto di riferimento di cristiani inquieti dopo il Concilio e avamposto d’una Chiesa in cerca d’un nuovo volto.

Mentre m’aggiravo alla ricerca d’informazioni, la Casa di Emmaus era appena stata edificata, fui raggiunto da qualcuno che mi rassicurò che padre Davide era presente, non aveva dimenticato l’appuntamento, ma in quel momento stava rincorrendo un contadino con cui aveva avuto un alterco. Lo attesi con pazienza una buona mezz’ora. Quando lo vidi spuntare, massiccio nella possanza dei suoi poco più che cinquant’anni, era ansimante e rannuvolato in volto. Mi disse che m’aspettava e mi fece strada verso la torre in pietra, dove aveva sistemato il suo studio: grosse pietre a vista, alcuni quadri sbilenchi, libri ovunque e sul vasto tavolo in legno. Seduto, s’accese una sigaretta, allora si fumava con allegra incoscienza, si rimproverò con irruenza il suo comportamento, poi rimase a lungo in silenzio. Quando si fu un poco rasserenato, fui io a fargli domande. Non ricordo quasi nulla della nostra prima conversazione (un’eco è forse nello scritto che poi gli dedicai): solo l’atmosfera mi è rimasta, l’emozione, la voce profonda, baritonale, il mio sguardo mobile sulle pietre della vecchia torre…

È stato l’inizio, non dico di un’amicizia, ma di un’amichevole frequentazione a distanza, partecipazione a conferenze, celebrazioni liturgiche, conversazioni telefoniche, fino negli ultimi tempi, quando malato era ricoverato nell’Ospedale di Padova.

A casa ritrovai nei suoi versi le tracce del paesaggio che avevo ammirato a Sant’Egidio e l’esergo subito si impose: «Sacra è la bellezza / di tutte le creature / e uno doveva raccoglierla». Le immagini riportate da quell’incontro, le ritrovo oggi, con qualche variante nell’ampia raccolta ( O sensi miei…, Rizzoli, Milano 1990), che riunisce tutte le sue poesie prima dei Canti ultimi:

 

Dalla spirale in pietra, la torre,

ora mia casa e mio rifugio,

vedo il mondo amico offrirsi

– costellazione umana – la notte.

La notte non più temuta,

la notte propizia al colloquio

calmo con l’Iddio  che mi ama

[…]

Non più uno stato di guerra

non più le giovanili disperazioni

o l’urto con la città che inseguivo.

(Non più disperate preghiere, p. 361).

 

*   *   *

Erano i tempi di Papa Giovanni: tempi di speranza, tempi di una Chiesa aperta al mondo, accogliente, tempi di rinnovamento, avviato da un Concilio giunto come un inatteso prodigio. Incapace di contenere la gioia, Turoldo da principio canta quegli anni in versi celebrativi e francescani («Andrò in giro per le strade / zufolando, così, / fino a che gli altri dicano: è pazzo!» (p. 364).  Rivolgendosi a papa Giovanni può dar «voce a due infallibilità / (perché) tutto, chiesa e fabbrica e  studi / è inesauribile invenzione / di un medesimo Spirito» (p. 372).

Durante quegli anni, esaltanti, contrastati, difficili, ho seguito padre Davide da lontano, nelle sue lotte, con minor immedesimazione nelle sue poesie che interpretavano nell’immediatezza, l’impazienza delle lotte, le attese di tanti cristiani che si sentivano risarciti, legittimati a battersi contro la guerra e per la pace. Quando mi avveniva di parteciparvi, erano strette di mano rapide e sguardi veloci, non c’era il tempo per le espansioni.

Lo ritrovai più tardi, quando la malattia l’avrebbe trasformato, smagrendolo nel corpo e nell’anima, e anche nelle certezze del credere. Inquieto tornava a ergersi, ritornava profeta di fronte alla giustizia ferita, al povero derubato, all’ultimo umiliato.

L’ultimo ricordo che ho di lui, intenso anche se sgranato nei dettagli, risale al tempo in cui il male, il drago del cancro, s’era ormai insediato nel suo corpo. Aveva telefonato a casa, mi dissero, la voce roca, affaticata, per confermare la sua partecipazione ad un incontro sui temi della pace in rapporto alla questione israeliana, organizzato dal Dipartimento di Studi Internazionali della Facoltà di Scienze Politiche di Padova.

L’Aula di Studi Internazionali è gremita di studenti e colleghi della Facoltà, gente in piedi, addossata alle pareti. Tra gli intervenuti, il Preside della Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” di Firenze, invitato dalla docente di lingua inglese, entrambi attenti, non solo per sensibilità culturale, alla questione ebraica. Si sapeva e si temeva che padre David non si sarebbe sottratto al dovere di parlare dei palestinesi, icona degli ultimi, spesso cantati nei suoi versi.

Lo vedo padre David, in piedi, lievemente curvo, smagrito, prendere la parola, abbandonare i convenevoli, imboccare un’erta salita, inoltrarsi in un’allusione all’Esodo, paradigma d’ogni liberazione: «I nostri Mosè di oggi si chiamano Dayan e per di più hanno un occhio solo: mancano precisamente dell’occhio della fede…». La tensione nella sala si fa palpabile, e allora padre David decide di affidarsi alla poesia, capace di dire l’indicibile:

 

Tornavamo dai lagers

come torrenti in piena

verso la terra del sole.

Tutti i volti erano in pianto

e il cuore impazziva

nella «paura»

di sentirci liberi.

Un nembo solo di cenere

Avvolgeva morti e vivi

in cammino sulle strade d’Europa.

Ma non sapevamo, Signore,

quanto è difficile

essere liberi.

Era bene che pure i vincitori

fossero uccisi,

libertà non sopporta vittorie.

Ritorna, Signore, e disperdi

quanti hanno nuovamente

ucciso milioni di morti:

anch’essi sono divenuti

assassini, hanno superato

l’infamia dei vinti.

Ritorna, Signore, e uccidi

Tutti i potenti: maledetti

che usano perfino il tuo nome!

Almeno gli ultimi

Poveri del mondo

conoscano solo inni di pace.

(Dal salmo dei deportati, p. 439).

 

Alcuni colleghi, in silenzio, visibilmente contrariati, abbandonarono l’aula. L’incidente provocò una lacerazione che rimase come una ferita aperta. E non fu facile spiegare ai colleghi, prossimi a Israele per ascendenza o per scelta, che i versi di Turoldo, risalenti agli anni 70, si situavano nella scia dei profeti biblici, schierati per amore di giustizia con la vedova, l’orfano e lo straniero.

Ma ormai la fragilità, come il corpo malato e in lotta col cancro palesava, aveva preso il posto dell’irruenza. Anche la sua poesia, lo appresi poi leggendo i Canti ultimi (Ultime poesie (1991-1992, Garzanti, Milano 1992), si andava completamente trasformando: con versi duri, franti, notturni, si rivolgeva a un Dio assente, a un Dio muto:

 

E sempre più remoto stai

nel tuo maniero,

unico segno

il tuo silenzio:

silenzio più alto

del silenzio astrale…

(Canti ultimi, p. 23).

 

Mentre intorno ogni forma di fede franava, mi inoltrai con Turoldo in un tempo  senza remissione:

 

Mio Dio, e tu?

Anche tu rivestito

della stessa vacuità?

Voce mi sento di chi ha paura

che tu non esista,

voce dell’intrepido che afferma

l’impossibile catastrofe.

«Nostra Necessità»,

come da sempre ho cantato:

oltre il corpo e le immagini:

anche tu, dopo infinita arte,

a finire nel buco nero?

E sola coscienza del Nulla sopravvive

(Mie notti con Qohelet, p. 223).

 

*   *   *

 

Nel novembre 2009 sono ritornato a Sant’Egidio, invitato insieme a mia moglie nella Casa di Emmaus per parlare di Simone Weil a un piccolo resto di ecclesia conciliare che aveva ascoltato padre David negli anni della speranza e ne custodiva, nel deserto, la memoria.

Prima di ripartire mi sono recato nel piccolo cimitero tra gli alberi, meta quotidiana della passeggiata serale di padre David. La tomba, addossata al muro di cinta, è una zolla di terra fiorita, sormontata da una croce di legno con il nome e due date: 1916-1992. Ho indugiato a lungo, calamitato da quelle due date. Poi, lentamente, con un groppo alla gola, in silenzio, ho raggiunto la macchina.


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Domenico Canciani ha insegnato Lingua e civilizzazione francese nell’Università di Padova, occupandosi di Minoranze, storia intellettuale nella Francia del XX secolo e nel Maghreb, dei temi del dialogo interreligioso curando gli scritti di Louis Massignon (L’ospitalità di Abramo. All’origine di ebraismo, cristianesimo e islam, 2002; La suprema guerra santa dell’islam, 2003). Da anni si dedica allo studio della vita e del pensiero di Simone Weil, pubblicando articoli e monografie. Nel 2012 il volume Simone Weil. Le courage de penser, sintesi delle sue ricerche, ha ricevuto il Prix Biguet de l’Académie Française. Con Maria Antonietta Vito ha avviato una sistematica traduzione e cura di molti scritti della pensatrice francese.