Abbiamo scritto la scorsa settimana, se pur a grandi linee, delle sorprendenti coincidenze che si ebbero negli gli anni ’60 e ’70, fra due movimenti di sinistra l’uno nato ad Oxford, l’altro a Bari, l’uno divenuto autorevole punto di riferimento per un certo mondo accademico, l’altro purtroppo dimenticato. Abbiamo spiegato come entrambi nacquero in risposta a clamorose mosse dell’Unione Sovietica, o come intento di entrambi fu quello di rigenerare il marxismo, ma non abbiamo detto tutto.

Altra caratteristica che ricollega le due esperienze fu la necessità, avvertita da entrambe, di dare alla politica un significato più ampio, che contenesse l’aspetto culturale come punto di partenza per l’analisi, e tuttavia mantenere un diretto aggancio alla realtà e all’azione su di essa. A questo proposito la New Left superò l’impostazione strettamente materialista del marxismo, riconobbe il ruolo della cultura nei mutamenti sociali e prese a porre sempre di più la discussione di questioni teoriche all’ordine del giorno (tanto da essere accusata poi di elitarismo); mentre l’École si spinse a riflettere sui modi stessi del fare politica giungendo a dibattere, ad esempio, di “Teoria delle forme”. Per “forme” si intendevano le istituzioni del partito e della politica e il loro modo di essere organizzate: andavano totalmente riviste in un senso più liquido e plurale. Furono queste idee che avvicinarono i “baro-marxisti” (come li chiama Franco Cassano, anch’egli membro dell’École) alle posizioni di Ingrao o di Reichlin, i quali provarono a portare l’assemblearismo o il consiliarismo all’interno del PCI, ma senza successo, ostacolati dai più (anche da Berlinguer).

Il contatto con la realtà poi, entrambi i gruppi, lo conquistarono dotandosi di circoli propri. Furono circoli, neanche a dirlo, totalmente atipici per quei tempi, come anche per i nostri. I circoli della New Left, come le Sezioni Universitarie (così furono chiamati i circoli dell’École), furono posti senza struttura organizzativa, con forme di leadership molto blande, nessun regolamento o forme di iscrizione. In particolare le Sezioni Universitarie furono pensate per collegare il partito alle nuove esigenze della società civile e specialmente a quelle provenienti dal mondo della scuola. Come ricorda lo stesso Giorgio Napolitano, l’École provò a integrare le istanze della sinistra post-sessantottina all’interno del PCI, per questo se ad esempio si verificava uno sciopero, la Sezione Universitaria organizzava un seminario aperto invitando studenti, quadri sindacali e dirigenti di partito, ed è comprensibile il fermento che ciò provocava.

Abbiam raccontato allora di due eroici, quanto utopici, tentativi di cambiare la Sinistra sviluppatisi a pochi anni e molti chilometri di distanza l’uno dall’altro. Ne abbiamo voluto parlare poiché colpiti dalle loro assonanze, nonostante l’uno fosse nato in una delle più prestigiose università del mondo, nel cuore dell’Europa che conta, l’altro in un’università di provincia, in una delle aree più sottosviluppate del continente, lontana centinaia di chilometri da qualsiasi centro di prestigio. Ne abbiamo voluto parlare poiché colpiti dal loro destino, come accennato, già scritto nel loro nome: l’uno fatto di fama e riconoscimenti mondiali, l’altro di oblio, riassorbito dalla provincia da cui non ci si difende se non con l’ironia, spesso profondendola a priori.

L’esperienza dell’École si concluse nel 1982 con la chiusura della casa editrice De Donato, e se non ci fosse stato un bello ed introvabile libro del 2007 di Felice Blasi (“Introduzione all’École barisienne”, Laterza Editore) a ripercorrerne la storia, forse oggi non ne avremmo scritto. La strada della Sinistra in Italia finì per essere contesa fra lotta clandestina ed extraparlamentare, l’operaismo di Negri e Tronti dall’Università di Padova, e da quella grande eresia che fu Il Manifesto, nato anch’esso a fine anni ‘60 da una costola del PCI, guarda caso, proprio a Bari. L’École ne rimase stritolata.

E tuttavia badando al sodo, dando uno sguardo alle sue direttrici teoriche, a quel che ci ha lasciato, troviamo la ricerca di una politica pluralista più che bipolare, l’esigenza di forme organizzative democratiche più che elitiste, l’importanza di un nuovo approccio alle questioni della territorialità, da cui ripartire per una riflessione sul Mezzogiorno. Sono questioni a cui certamente si è provato a rispondere, ma che si pongono ancora. Come si pongono ancora le due domande da cui l’intera esperienza barese prese le mosse, la prima: “come modernizzare la democrazia?”, e la seconda: “come democratizzare la modernizzazione?”, che da qualunque punto di vista la si guardi rappresenta uno dei problemi più insistenti della Sinistra e della politica in generale anche dei nostri tempi.


1 COMMENTO

  1. “come modernizzare la democrazia?”, “come democratizzare la modernizzazione?”, uno dei problemi più insistenti della Sinistra e della politica in generale anche dei nostri tempi.
    Sintesi efficace

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