Dirokkata

Quelli come me oggi trentenni, nati e cresciuti nel Nord-barese, ancora ricordano le locandine dei concerti affisse in giro per la città.

Non c’eravamo mai stati perché troppo piccoli, eppure avvertivamo che in quel posto avveniva qualcosa di diverso rispetto a tutto ciò a cui eravamo abituati.

Cosa? In pratica, era successo che una ciurma di pirati di provincia e un po’ punk, aveva trovato la sua Neverland. Gli uomini di quell’equipaggio avevano la passione per rotte misconosciute e accidentate, cercavano tesori che non li avrebbero arricchiti. Riconobbero la loro “isola che non c’è” in un casale abbandonato e decadente all’ombra di una grossa quercia, adagiato fra le campagne andriesi, qualche chilometro oltre il boschetto di Sant’Agostino. Ne fecero un Centro Sociale Occupato Autogestito, rimasto attivo quasi per tutti gli anni ’90, lo chiamarono la “Dirokkata”.

Fin qui la leggenda. Come andò effettivamente hanno deciso di raccontarcelo due dei ragazzi del collettivo, oggi quasi quarantenni, che diedero vita a quell’esperienza: Riccardo e Vincenzo (nomi di fantasia). Siamo tornati al casolare in loro compagnia una mattina di gennaio a cercare le tracce dei fasti che furono.

Per quanto tempo è rimasta in attività la Dirokkata?

VINCENZO: Il posto iniziò ad essere frequentato dalla fine degli anni ’80, ma per qualche tempo fu solo un luogo in cui si andava il sabato sera a fare festa con un certo tipo di musica. Mentre a inizio anni ’90 decidemmo di mettere su un collettivo anarchico antagonista e dare al tutto una direzione politica e sociale. Eravamo un gruppo con diverse età al suo interno, ragazzi dai 15 ai 30 anni e qualcuno anche oltre. Venne naturale scegliere la Dirokkata come base perché molti di noi già la frequentavano e poi lì le serate musicali attiravano persone esterne al collettivo, che erano un buon bacino per la diffusione delle idee e l’autofinanziamento. Pian piano comprammo il generatore, le casse, i microfoni, riparammo la struttura, costruimmo il palco e ricostruimmo il tetto dopo che un gruppo di fascisti, mentre noi non c’eravamo, erano venuti a bruciarlo.

RICCARDO: La scena antagonista al Sud era ben rappresentata. C’erano centri sociali parecchio attivi a Napoli, Taranto, Foggia. Proprio i foggiani, che avevano contatti con quelli di noi più grandi, ci insegnarono tutto. Loro avevano già fatto esperienze occupando l’ex piscina comunale, il CIM, un asilo abbandonato e facendo nascere posti come la “Diskarika”, in seguito l’“Oskuria”, tutt’ora attivo. Anche ad Andria la Dirokkata fu la prima, la più importante, ma non l’unica. Ci furono la “Kasa Okkupata”, “Il Sotterraneo”, “La Masseria Okkupata”, il “Centro di Studi libertari”, il “Vox Libera”, che però era un’associazione culturale. La magia della Dirokkata fu che fece da detonatore ad un sentimento generalizzato di ribellione e controcultura. I ragazzi iniziarono ad autoprodursi la musica o le fanzine (riviste anarchiche, ndr). Alcuni si dedicarono alla grafica, alla serigrafia, al teatro. Provammo a recuperare pratiche come quella del baratto, e si moltiplicarono le manifestazioni animaliste, antimilitariste e così via.

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La Dirokkata: il palco

Quindi non fu solo uno spazio per concerti?

VINCENZO: Assolutamente no, l’aspetto politico era quello fondamentale. Discutevamo su tutto, incontri interminabili su qualsiasi questione. Urlavamo, litigavamo e decidevamo la linea. Le band che suonavano, che arrivavano dal Nord, dalla Campania, dalla Sicilia, erano parte del movimento. Avevano sposato la causa e veicolavano messaggi coerenti con essa. Ogni concerto era preceduto almeno da un dibattito. Sai come si faceva? La Dirokkata era direttamente collegata con gli altri centri sociali d’Italia. Posti come “La Scintilla” di Modena, “El Paso” di Torino, il “Barocchio”, l”’Asilo Okkupato”, l’”Alcova”. In occasione d’iniziative particolarmente importanti loro venivano da noi e noi da loro. Se decidevamo di far girare un gruppo ci si contattava tutti: ad esempio quelli di Cuneo sentivano Torino, questi quelli di Milano, loro quelli di Bologna e così via a catena, in modo da organizzare alle band un tour vero e proprio. Non sto neanche a dire che ai musicisti si davano i soldi della benzina e poco più. Abbiamo ospitato gente come i COV, i 2000 Dirty Squatters, i Suoni Mudù, nel 1994 i 99Posse. Poi, certo, anche tanti gruppi più inesperti.

RICCARDO: Al nostro interno le anime erano diverse: quella pacifista, animalista, ambientalista, anticlericale. Ma si può dire che la divisione grossa fosse fra i favorevoli alla “propaganda” e quelli “all’azione diretta”. I primi, di solito i più grandi, erano più per la sensibilizzazione, gli altri, i più giovani, erano per le dimostrazioni eclatanti, per il conflitto. La divisione netta venne fuori, ad esempio, quando decidemmo di occupare la scuola dismessa.

In che senso? Avete occupato un edificio in centro ad Andria?

RICCARDO: Sì, nel 1993, la scuola elementare abbandonata in Piazza Murri. La Dirokkata andava benissimo, ma era lontana dal centro abitato e volevamo un posto da frequentare tutti i giorni. Provammo a chiederlo all’amministrazione anche se molti di noi, anarchici duri e puri, erano contrari. Ci fecero promesse, ma poi niente. Allora organizzammo una manifestazione, un centinaio di persone, gente anche da Napoli e Foggia, ancora niente. Noi eravamo gli esclusi della società, i cattivi, l’unico posto che ci era consentito era la Villa Comunale, che all’epoca era completamente abbandonata dalle istituzioni. Così decidemmo di occupare.

VINCENZO: Mentre provavamo ad entrare la gente guardava incuriosita, intanto le ragazze distribuivano i volantini dove si spiegava il gesto. Occupammo in 10 al mattino e al pomeriggio c’era già tutta la “corte celeste” schierata. Celerini venuti addirittura da Bari ci buttarono fuori e finì con qualche denuncia. Ma a noi interessava il significato dell’atto, eravamo spudorati. Appena entrati, issammo la bandiera nera, se ci penso mi viene la pelle d’oca. Questa però non fu l’unica azione degna di nota. Un anno, ad esempio, organizzammo l’Anti-Pasqua, sempre alla Dirokkata. Una tre giorni anticlericale di musica, dibattiti, proiezioni, campeggio libero. Un’altra volta, invece, al seguito di una delle band che avrebbe suonato, arrivò un gruppo di tedeschi, una specie di grande famiglia punk con tanto di donne e bambini. Tu immaginati questi che entrano ad Andria su un bus militare scalcinato e 2 Mercedes sfasciate. La gente non ci credeva, li guardava come gli alieni. Infatti ce li portammo al più presto in campagna.

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La Dirokkata: murales

Ecco, infatti, la gente: come eravate percepiti dalle persone? Come vi trattavano le forze dell’ordine? Sulla Dirokkata giravano parecchie storie di droga, satanismo e così via.

VINCENZO: Il satanismo è una stronzata totale. Qualche giornale si era divertito a marciarci sopra, ma assolutamente niente di fondato. La polizia ci stava addosso soprattutto perché pensava che fossimo immischiati con la droga, ma non era vero. La maggior parte della gente ci considerava semplici drogati. Anche se, se si vuole parlare di droga negli anni ’90, dobbiamo parlare di eroina, e noi l’eroina la odiavamo. Avevamo fatto anche un murales che diceva “FUORI LO STATO DALLE VENE”. Certo ci facevamo le canne, ma la Dirokkata non è mai stata luogo di spaccio. Qualche volta è venuto qualcuno della SIAE, che ovviamente noi essendo anarchici non pagavamo. Chiedeva di parlare con un responsabile, noi gli indicavamo il cane. I cani stavano sempre con noi, vivevamo in simbiosi. Quindi bisognava vedersela coi cani. Poi, io personalmente all’epoca avevo cresta, orecchini, tatuaggi, pantaloni aderenti, anfibi sempre sporchi, non ero visto benissimo.

RICCARDO: Invece io ricordo che un nostro amico, dark, girava sempre con un cappotto nero lungo e dei libri sotto il braccio. Mia zia, che se lo vedeva passare davanti casa ogni giorno, lo chiamava “U professor”. Grazie ai libri non era più drogato. Se comunque per noi era dura, ancora più brutto era per le ragazze, tutte hanno avuto problemi con i propri genitori per il fatto di frequentare noi e aiutare il collettivo. Del resto non eravamo proprio personcine a modo. Ogni volta che uscivamo dalla Villa Comunale, al primo commento infelice di qualcuno, finiva in rissa. Non eravamo disposti a subire. È per questo che poi la Villa per tutti divenne un posto inavvicinabile, poiché buio, abbandonato e con noi dentro. Eravamo visti come il problema, in realtà eravamo gli unici a prenderci cura della zona.

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Punk per sempre

Come si è concluso il tutto?

RICCARDO: Un sabato sera del 1998, suonava la Pirata Folk Band, arrivarono 12 pattuglie dei Carabinieri, bloccarono tutti i presenti, ci schedarono, sequestrarono ogni cosa e misero i sigilli alla struttura dichiarata pericolante. Le ragioni profonde però furono anche altre. In primis l’età, crescendo ognuno dovette trovarsi un lavoro, io per primo andai a cercarmelo a Milano. Poi in Villa la situazione cambiò. Iniziò ad essere frequentata da gente esterna al movimento, a cui niente interessava del discorso ideale e politico. Si rovinarono degli equilibri e subentrò la demotivazione e un po’ di paura.

VINCENZO: Quasi tutti quelli del collettivo oggi hanno una vita regolare. Qualcuno ci prova ancora, tutt’oggi vive in una casa occupata ed è attivista nei centri sociali. Le idee politiche di allora, per la maggior parte di noi, non sono cambiate, però siamo dovuti scendere a patti con la vita che a un certo punto si fa tremendamente seria. Entrambi abbiamo moglie e figli piccoli, dunque siamo usciti dal giro, con dignità, sporcandoci noi le mani con la merda della vita quotidiana, ma almeno lasciando puliti i nostri ideali. Del resto l’Anarchia, per chi l’ha conosciuta, è tutto. L’ideale di libertà che promette è troppo bello per restarci indifferente.

RICCARDO: Quando mi chiedono se creda ancora nell’Anarchia rispondo che non è che ci credo, la sento, e questo mi basta.

Tornando verso casa, in macchina, poi i ragazzi mi hanno detto che fra di loro girava un modo di dire: “la Dirokkata non crollerà mai”, e infatti è ancora lì. Così ho pensato che quel casolare in disparte, che minaccia in continuazione di collassare, può essere visto come l’incarnazione perfetta dell’ideale anarchico. Un’idea bislacca, appartata, che non sta in piedi e non promette stabilità, ma sempre capace di trovare qualcuno da fare innamorare, che finisca per prendersi cura di lei. Certo bisogna essere romantici, come non lo siamo più.

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La Dirokkata in gabbia

* Si ringrazia Paola Fortunato per le foto e per aver permesso l’intervista.