Intervista ad Andrea Vitali

Andrea Vitali (Bellano, 1956) è uno dei pochi autori italiani seguiti da oltre 3 milioni di lettori. Negli ultimi dieci anni, ha pubblicato con Garzanti, in media, due romanzi di successo all’anno, ottenendo prestigiosi premi letterari un po’ dappertutto lungo la Penisola, a partire da Una finestra vistalago (premio Grinzane Cavour 2004 e premio Bruno Gioffré 2004). Per l’opera omnia gli è stato conferito il premio letterario Boccaccio, nel 2008.

Nonostante un curriculum così imponente, Andrea Vitali è persona discreta, di quelle che non si danno arie di “grandeur”. Si lascia avvicinare e si offre al nostro registratore con grande disponibilità, dimostrando una verve che ispira naturale simpatia e che la stessa che emerge dalle sue pagine.

Biglietto, signorina è l’ennesimo romanzo che lei, Andrea Vitali, ambienta a Bellano: evidentemente è il frutto di una scelta ben precisa.

Direi prima di tutto una scelta di affezione perché adoro il posto in cui sono nato e vivo. E poi è una scelta di carattere tecnico perché una geografia sicura fa sicuramente bene a storie di questo genere. E quella di Bellano è l’unica geografia che posso affermare con una certa sicurezza di conoscere abbastanza bene, per cui, finché avrò storie di questo tipo da raccontare, penso che Bellano e dintorni, con il panorama del lago, sia una scelta quasi obbligata.

Una scelta che i suoi lettori dimostrano di apprezzare…

Come le dicevo, avere sottomano un luogo ben sicuro da percorrere non solo con le gambe, ma anche con la fantasia, quando sto raccontando una storia, mi dà molto conforto e peraltro mi crea una suggestione romanzesca che poi riesco a verificare nei lettori che non conoscono il luogo, ma che mi dicono che sembra quasi di esserci, di vederli, di sentire i profumi del lago e del territorio circostante. Ma questa è la cosa che accomuna ogni lettore. La stessa sensazione provo quando leggo i romanzi di Camilleri ambientati in una Licata che non ho mai visto – e che mi sono ripromesso di andare a visitare, un giorno o l’altro – ma che mi sembra di conoscere grazie proprio alle cose che Camilleri ha scritto.

Leggendo Biglietto, signorina, ci si chiede quanto le storie, l’ambiente, i personaggi, anzi i “caratteri” del suo romanzo siano attuali nel ventunesimo secolo.

Direi proprio di sì: i caratteri, soprattutto. Magari i personaggi no, perché molto sono legati a mestieri che sono scomparsi per ovvie ragioni dettate dal progresso, ma i caratteri veramente non cambiano mai: si adattano alle necessità del tempo. Sono caratteri molto presi dalla realtà. Io poi ho avuto la fortuna di fare un mestiere [quello del medico, ndr] che mi ha messo a contatto per quasi trent’anni con i caratteri, per cui, anche non volendo, mi ho recuperato un archivio di soggetti al quale attingo quotidianamente per raccontare queste storie.

In effetti, le sue pagine fanno pensare ad una nuova versione delle sceneggiature dei migliori film neorealisti del secondo dopoguerra. Leggendo in Biglietto, signorina la descrizione che lei fa del maresciallo, dell’appuntato e dei lestofanti con cui si misurano, tornano alla mente le sequenze di Guardie e ladri, con Aldo Fabrizi e Totò.

Non ha fatto una cattiva pensata, devo dire, perché la mia cultura cinematografica è scarsina, ma si alimenta molto del Neorealismo, del bianco e nero, delle storie di un’Italia che dopo la Seconda Guerra Mondiale si rimette in piedi, si ricostruisce e quindi dà origine a caratteri che sono stati molto ben delineati nella commedia italiana: Alberto Sordi, soprattutto, ha impersonato un arcobaleno di caratteri irripetibile.

Marta, una straniera accolta in un’Italia da costruire: quanto della sua vicenda si può ritrovare oggi nelle storie di immigrati raccolti in mare?

Marta è il riassunto di tante storie che sono sotto gli occhi di tutti noi, anche se con un’evidente differenza a secondo del territorio in cui si vive. Io ho la fortuna di vivere in un piccolo centro in cui, ovviamente, non possono arrivare centinaia o migliaia di extracomunitari in un colpo solo. Questo fa sì che quei quattro o cinque che ci arrivano producano un piccolo impatto sulla comunità e possano essere accolti e integrati al punto di diventare parte sostanziale della stessa. La storia di Marta si distacca dunque dalle storie di integrazione che io ho vissuto. Marta, per ragioni meramente romanzesche, interpreta la parte della “cattiva”. Compie degli atti poco limpidi per scopo di lucro assolutamente personale. Tuttavia, ricalca il percorso di uno che, arrivato da chissà dove, senza soldi e senza futuro, in qualche modo riesce a ottenere il suo obiettivo. Io invece vivo con figli di immigrati che parlano il mio dialetto meglio di me: fa impressione, ma ti dà la misura di come un soggetto che sei mesi prima non conosceva una parola della tua lingua, ora è dentro, all’interno della tua comunità. Marta purtroppo interpreta un’altra parte, ma solo perché il romanzo doveva stare in piedi. Uno che scrive un romanzo non può permettersi di non tirare i fili della storia.

Dunque, lei non intende raccontarci di quanto accadeva ieri per intendere l’oggi?

Guardi, l’attualità dei miei caratteri è una cosa reale, ma non l’unica. Nel senso che trovo spesso atteggiamenti o situazioni riscontrabili nella realtà quotidiana, ma li trovo dopo averli raccontati. E spesso non sono io a ritrovare queste coincidenze, ma è un lettore che, avendo letto il libro, me le fa notare. Questo deriva dal fatto che io non ho mai scritto una storia a tema. Non ho mai scritto una storia per dimostrare che, ad esempio, oggi c’è uno scarico di responsabilità per cui le Amministrazioni Comunali si rimandano i debiti l’una con l’altra e la colpa è sempre di quella che precede e mai di quella in carica. Non ho mai inteso scrivere una storia simile, ma è probabile che la suggestione dei tempi che viviamo mi induca, insensibilmente, a non poter fare a meno di notare cose di questo genere. Quindi, dico sì, nel senso che è vera questa cosa che lei mi chiede, e dico no, perché non l’ho cercata.

Mi perdoni se insisto: come non pensare che l’infamità del Torelli sia un’allegoria dell’infamità della politica odierna?

Io non sono un grande intenditore di politica. Non seguo da un pezzo i dibattiti televisivi perché mi annoiano terribilmente. Sono stufo di sentire sempre le solite balle riciclate. Mi piacerebbe vedere dei fatti nuovi. Ma, anche nel piccolo che io ho sotto gli occhi, vedo che la politica, quella piccola politica che fa tanto male ai piccoli posti, è fatta di piccoli accordi, di interessi, di opportunismi. Proprio come accade al Torelli: siccome l’han trombato la prima volta, e l’han trombato perché sanno chi è, cerca di mettere assieme una lista di persone che gli son debitrici e poi va ad accumulare cariche e carichette per imporsi agli occhi della comunità, per cui diventa il delegato del sindaco per la lotta alle mosche, per la monta taurina, per l’elenco dei poveri. L’infamità sua sta in questo, nel fatto che assume cariche che gli permetto di fare il potente coi poveri, mentre è umile coi potenti. È la categoria umana più schifosa.

In effetti, ho ascoltato degli studenti chiederle se nel suo Torelli, il vicesindaco da lei definito un “placido dinosauro”, possiamo rintracciare qualche tratto del Don Abbondio manzoniano…

Nel Torelli? No. Decisamente no. Povero don Abbondio! Don Abbondio è un Cicciobello. Poveretto. È andato a fare il prete proprio per non avere guai con la vita e si ritrova in un pasticcio non indifferente. Non è colpa sua, poveretto! Il Torelli invece è un infame, un furbo, un approfittatore, anche un po’ schifoso come persona. Mi sono anche divertito a dipingerlo così perché mi sono ispirato ad un paio di piccoli politici nostrani che non amo, ma che tanto in lui non si riconosceranno, anche perché quei tipi lì i libri non li leggono. Se li leggessero, non sarebbero come sono… Il paragone con don Abbondio mi sembra dunque un po’ azzardato. Don Abbondio mi fa anche tenerezza. Se potessi, lo aiuterei quando si incontra con i due bravi. Mi verrebbe voglia di scrivere un qualcosa che lo aiuti a venir fuori dal pasticcio in cui è cascato, ma non oso farlo altrimenti mi vien giù un fulmine dal Cielo.

A proposito: quali sono i suoi legami con gli autori della grande tradizione letteraria?

I miei primi racconti risalgono al 1987, su una rivista che si chiamava Il Belpaese, di Raffaele Crovi, il mio primo editore, scrittore e poeta di suo, che aveva lavorato con Elio Vittorini. Gli mandai 16 o 17 racconti e lui, dopo un po’, mi telefonò e mi disse: “L’idea sottesa ai racconti mi piace, però, Vitali, lei la deve smettere di leggere solo romanzi dell’ ‘800!”. Aveva messo l’accento sul mio difetto di lettore: io allora mi alimentavo di Tolstoj, Dostoevskij, Balzac, Scott, Dickens. Degnissimi scrittori e bellissimi romanzi, ma di un’altra epoca. E non mi ero accorto che scrivevo come loro. Solo che non si scrive più così. L’han già fatto. Bisogna fare un’altra cosa. Peraltro, il mio rapporto con la modernità è di neutralità armata. Mettiamola così: so spedire una mail, ma non so fare il copia e incolla. Sono nato non solo quando non c’era internet, ma neanche il secondo canale della Rai, per cui mi adatto con molta lentezza a molte cose che invece fanno parte del quotidiano della generazione odierna.

E allora qual è il suo rapporto col passato?

Dipende dal passato a cui lei si riferisce. Ce n’è uno che è meglio resti tale e al quale è bene che non si faccia alcun tipo di riferimento. Ce n’è un altro che è figlio della memoria dei disastri della dittatura, della guerra, delle migliaia e migliaia di morti che la guerra ha procurato, dopo il quale l’Italia si guarda in faccia, si rimbocca le maniche e si ricostruisce con una speranza di futuro. Bisogna pur sempre guardare avanti. Ci sono pur sempre delle generazioni a cui va preparato un terreno migliore di quello che abbiamo calpestato noi. È quello che facciamo noi con i nostri figli e che i giovani di oggi faranno un domani con i loro.


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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...