“Quando la vita rovescia la nostra barca, alcuni affogano, altri lottano strenuamente per risalirvi sopra. Gli antichi connotavano il gesto di risalire sulle imbarcazioni rovesciate con il verbo ‘resalio’. Forse il nome della qualità di chi non perde mai la speranza e continua a lottare contro le avversità, la resilienza, deriva da qui ”.

Si apre così il primo capitolo del libro Resisto, dunque sono di Pietro Trabucchi. Un libro che, ad ogni singola riga, mi ha parlato, che utilizza il mondo dello sport come metafora della vita, e mi ha motivato a scrivere ad una moltitudine di colleghi, che, come me, praticano uno “sport estremo”: lavorare nell’ambito socio sanitario, in particolare in comunità alloggio di tipo riabilitativo.

Sta prendendo sempre più piede, in svariati ambiti di lavoro, il fenomeno del burnout, cioè quel “bruciarsi” a livello psicofisico (“mi brucia lo stomaco” ) che comporta un esaurire fino all’ultimo le nostre energie.

Sono un tecnico della riabilitazione psichiatrica e non ho la presunzione di dichiarare che solo il mio lavoro sia difficile, ma in questi anni di lavoro ho potuto toccare con mano quanto questo campo ti svuoti e ti inondi di un mondo che la comunità con le sue dinamiche, inevitabilmente, ti riversa.

Il libro di Trabucchi illustra quanto le persone non siano disturbate dalle cose in sé, ma dall’opinione che ha di esse. Sta a noi scegliere di vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, resta il fatto che il bicchiere è lo stesso. Stiamo parlando così di valutazione cognitiva e ristrutturazione degli eventi stressanti che, se percepiti in maniera più funzionale, ridurrebbero di una buona percentuale il rischio del burnout con tutte le patologie psicosomatiche annesse.

Riscontreremmo meno certificati di malattie o ferie impreviste, vivremmo la pausa dal lavoro come momento di distacco piacevole e non più stressante, senza vivere il giorno prima di ricominciare con l’angoscia di tornare dietro quella scrivania. Si è verificato scientificamente che stati mentali positivi possono produrre un aumento dell’efficienza della risposta immunitaria mentre diminuisce la compresenza di patologie somatizzanti.

Noi operatori di comunità cerchiamo nel nostro quotidiano di gestire il complicato mondo dei nostri ospiti, ma al nostro chi ci pensa? Diventa complicato essere terapisti della riabilitazione di se stessi, ma sicuramente potremmo imparare ad essere più resilienti: a saper incassare anche il fallimento, a rialzarsi e apprendere a ristrutturare.

Non sono operazioni semplici, anche per il contesto in cui viviamo, in un mondo “social”, più virtuale che reale, ci abitua a tempistiche assurde dove le attese non sono contemplate e le aspettative pretese sono alte.

Siamo la generazione del “tutto e subito”, non possiamo aspettare (vogliamo la risposta immediata magari ad un messaggio mandato su Facebook), siamo in cerca di continua conferme (la spunta blu del messaggio su Whatsapp: ok lo ha letto!), vogliamo essere continuamente apprezzati (metti il MI PIACE al mio stato, ne contiamo quanti ne arrivano) .

Se il tutto lo trasportiamo nelle dinamiche reali, è inevitabile che queste ci porteranno al fallimento e alla conseguente frustrazione. Non siamo più abituati a questi sentimenti. Ma la frustrazione, se non è vissuta a lungo, fa muovere il nostro cervello ad un indirizzo di vita diverso, forse più adattivo a ciò che stiamo vivendo. Non si può sempre vivere secondo il principio di piacere, come sosteneva Freud, si passa, crescendo, ad un principio di realtà.

Lo si sperimenta a proprie spese e si impara a fare un lavoro diverso su sé stessi per rendere molto di più con i propri ospiti. Certo, non sempre si riesce, ma bisogna mettersi in discussione, ogni tanto.

Sarebbe auspicabile immaginare una sorta di tavola dei dieci comandamenti per accrescere la resilienza, anche per l’operatore di comunità, come una sorta di “pane nostro quotidiano”:

  1. Abbassa le tue aspettative per una valutazione cognitiva più vicina al reale;
  2. Dividi l’obiettivo da raggiungere in tanti altri piccoli step e non sovraccaricherai la mente;
  3. Impegnati: accetta la fatica, non si può sempre vincere facile;
  4. Permettiti di sbagliare: l’errore genera nuove opportunità, nuove strategie di intervento sul paziente;
  5. Rispettate i vostri ruoli: lavoriamo in equipe e ci possiamo permettere di dividerci le responsabilità;
  6. Rivestiti di “medaglie di ghiaccio”: ogni successo è temporaneo e non conta misurarsi con il collega, ma l’impegno che ci hai messo;
  7. Abbi senso dell’umorismo: ironizza su alcune dinamiche, l’humor ti consente di verbalizzare sentimenti che se repressi sono distruttivi;
  8. Non vi sono situazioni disperate, ma solo coloro che disperano di potercela fare;
  9. Impara ad ascoltare i segnali d’allarme del tuo corpo e prendi una pausa;
  10. Ultimo, ma non meno importante: mantenere vivo l’entusiasmo; ricorda che senza entusiasmo non si è mai compiuto nulla di grande.

Mi piace concludere questa testimonianza/riflessione con le parole di Cristian Zorzi, medaglia d’oro alle Olimpiadi di Torino nel 2006: “La capacità di resistere allo stress, superare gli ostacoli pur restando sempre motivati: questa è la resilienza. È interessante il fatto che si possa allenare e potenziare e insegnare alle nuove generazioni. È il mio augurio. Credo che oggi nel nostro mondo ci sia bisogno di molta resilienza”.


3 COMMENTI

  1. Complimenti per l’articolo. Righe che esprimono una vita vissuta all’insegna del dono di sè per un’altra o altre vite e già questo…
    Nel decalogo io aggiungerei anche l’undicesimo comandamento che non è “…………” quello che hai appena pensato ma: qualche settimana di silenzio, interiorità, preghiera e stupore dinanzi al creato per riabilitare lo spirito. Buon viaggio.

  2. L’ ho trovato interessante, in effetti alcuni lavori, anche se retribuiti, sono sempre intrinsechi di spirito di volontariato.

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