Un pastore Dinka protegge il proprio bestiame con un kalashnikov. Cattle camp di Agaar nei pressi di Yirol, Lakes State, South Sudan

Sabato 25, alle 18:30, presso lo spazio Hublab di Andria, s’inaugura la mostra “Gudwal Arait” dedicata proprio al Sud Sudan. Il fotografo, Nico Antolino, ha trascorso lì 7 mesi, tornando a casa con centinaia di foto. I 17 scatti ritenuti migliori sono quelli che compongono la mostra in questione.

“In tutta l’Africa non esiste luogo più sinistro del Sud Sudan” scrive a un certo punto lo scrittore Ryszard Kapuściński in “Se tutta l’Africa”. Lui in effetti l’aveva girata interamente, dunque c’è da fidarsi. Ammetto che la prima volta che ho sentito parlare di Sud Sudan la prima cosa è stata andare a verificare dove fosse. Dunque in Centr’Africa, a sinistra dell’Etiopia, a destra del Congo.

Poi ho letto su wikipedia che il Sud Sudan è lo stato più giovane del mondo, è nato il 9 luglio 2011 a seguito di un referendum col quale si è diviso dal resto del Sudan. A seguire qualche altra notizia, tipo che il paese galleggia sul petrolio, ma la popolazione da ciò non ne trae alcun beneficio; o che dal 2013 è in corso un conflitto fra i sostenitori del Presidente Salva Kiir di etnia dinka, e quelli dell’ex vicepresidente Riek Machar di etnia nuer per la presa del potere.

Sabato 25, alle 18:30, presso lo spazio Hublab di Andria, s’inaugura la mostra “Gudwal Arait” dedicata proprio al paese africano. Il fotografo, Nico Antolino, ha trascorso lì 7 mesi, tornando a casa con centinaia di foto. I 17 scatti ritenuti migliori sono quelli che compongono la mostra in questione. Abbiamo incontrato Antolino per fargli qualche domanda.

In che periodo sei stato in Sud Sudan?

Ci sono stato dall’agosto 2014 al febbraio 2015. Ci sono andato in qualità di fisioterapista, che è poi la mia principale occupazione. Dunque ho fatto il volontario per un progetto di cooperazione internazionale per conto di una ONG italiana che si occupa di sanità in Africa. Lavoravo presso l’ospedale pubblico della contea di Yirol, nel Lakes State, le foto sono state un corollario a questa mia principale attività. Questa è un po’ una costante da quando ho iniziato a fotografare.

Quando hai iniziato?

Fotografo da poco più di 10 anni, l’ho fatto e continuo a farlo nel tempo libero. Ho cominciato con una macchina analogica (nonostante già una decina di anni fa l’analogico fosse stato rimpiazzato dal digitale), per poi cimentarmi nella stampa bianco e nero in camera oscura. Dal 2014 fotografo con una macchina digitale.

Vivevi in un villaggio o in una città?

Vivevo in un compound nel villaggio di Yirol assieme agli altri collaboratori. Durante la mattinata ero impegnato nelle attività in ospedale, nel pomeriggio, quando non c’era da dare una mano nella logistica della farmacia, facevo lunghe passeggiate, giravo per il mercato o seguivo qualche lezione di arabo da un farmacista sudanese di Khartoum. Prima del tramonto bisognava comunque far ritorno al compound per l’assenza di un sistema di elettrificazione pubblica e quindi di illuminazione, oltre che per motivi di sicurezza.

La comunità locale come si poneva nei tuoi confronti in quanto bianco e occidentale?

Spesso era incuriosita dalla nostra presenza, sebbene gli stranieri siano presenti in quel villaggio da più di 10 anni. Con i collaboratori locali c’era un rapporto pressoché normale, essendo abituati da anni a lavorare con gli stranieri.

È stato semplice fotografare lì?

A volte è stato semplice, altre no. Spesso erano le stesse persone a chidere di scattare una “sura” [foto in un arabo, ndr], divertiti dal fatto di vedersi ritratti sul display della fotocamera. Se durante le mie passeggiate incontravo persone o situazioni che catturavano la mia attenzione, fotografavo. Purtroppo, per motivi di tempo e sicurezza, non sono riuscito a muovermi molto dalla zona del villaggio di Yirol. Avrei voluto fare di più.

Mi racconti una situazione particolarmente incredibile vissuta?

Un episodio inusuale è sicuramente stato quello che ha avuto come protagonista un autista della nostra Ong. Non presentandosi al lavoro al solito orario, ci fu spiegato dagli altri suoi colleghi che era finito in galera per non aver terminato il pagamento della dote della propria moglie in vacche. Ovviamente la denuncia era partita dalla famiglia della moglie che reclamava il pagamemto. Sbalorditi di fronte alla stranezza di un episodio simile non potemmo far altro che prenderne atto. L’uomo rimase in prigione i giorni necessari affinché i parenti raccogliessero una cifra adeguata per ottenerne il rilascio. A questa dovette aggiungere anche un anticipo del suo salario. In generale comunque è incredibile tutto il rapporto che hanno con le vacche. Come ho raccontato nel testo critico della mostra – curato assieme alla mostra stessa da Lura Tota – esistono oltre cento parole per distinguere i bovini a seconda del colore, della sfumatura e della stazza, oltre al fatto che i nomi dei bovini vengono trasmessi alle persone. È una cosa per noi abbastanza incomprensibile.

Forse è per questo che lo stesso Kapuściński già citato, in un altro libro intitolato “Ebano” scrisse “non so come sia cominciata questa guerra. È passato tanto di quel tempo. Una mucca rubata ai dinka dai soldati dell’esercito governativo, che poi i dinka si sono ripresi provocando una sparatoria e dei morti? Più o meno le cose saranno andate così. Naturalmente la mucca non era altro che un pretesto”.