Forse, quanto è avvenuto non si può comprendere, anzi, non si deve comprendere, perché comprendere è quasi giustificare. Mi spiego: “comprendere” un proponimento o un comportamento umano significa (anche etimologicamente) contenerlo, contenerne l’autore, mettersi al suo posto, identificarsi con lui. Ora, nessun uomo normale potrà mai identificarsi con Hitler, Himmler, Goebbels, Eichmann e infiniti altri. Questo ci sgomenta e insieme ci porta sollievo: perché forse è desiderabile che le loro parole (e anche, purtroppo, le loro opere) non ci riescano più comprensibili. Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre.
(Primo Levi)

Auschwitz, settantadue anni fa. Sono trascorsi solo settantadue anni dall’orrore e dalla barbarie che hanno segnato per sempre la nostra storia, tingendola di una soffocante, ed ormai permanente, nuvola nera. Eppure mi spiazza, soffermarmi a pensare che il dramma della Shoah sia un avvenimento così recente e così vicino ai nostri giorni.

Ogni 27 Gennaio, dal 1945, si celebra il Giorno della Memoria, giornata in cui le truppe dell’Armata Rossa riuscirono a liberare i pochi superstiti ebrei dal campo di concentramento di Auschwitz, che ha rappresentato il più efficiente centro di sterminio della Germania nazista.

È difficile stabilire il numero esatto delle vittime di Auschwitz. Molti prigionieri non erano registrati; molti altri dati sono stati distrutti dalle SS. Si è stimato, secondo alcuni calcoli statistici sugli orari degli arrivi dei treni carichi di deportati, che le vittime ammontino a circa un milione.

Il campo di concentramento di Auschwitz è stato dichiarato Patrimonio dell’Umanità UNESCO nel 1979 e adesso è aperto alle visite di scuole e turisti. Erica Scalera, giovane studentessa molfettese, l’anno scorso si è recata a Oswiecim, nella Polonia meridionale, luogo in cui è collocato il campo. Di seguito la sua intervista, ricca di emozioni e consigli per chi ha intenzione di visitare Auschwitz e conoscere più a fondo la cruda realtà di quei tempi, guardando i luoghi con i propri occhi e toccandoli con l’anima.

Quali immagini prendevano forma nella tua mente, prima di partire per Auschwitz?

Il giorno in cui ho visitato Auschwitz è stato molto strano. Durante il viaggio in bus, prima di arrivare a destinazione, guardavo fuori dal finestrino ed il cielo era cupo, grigio, ad accompagnare quel senso di impotenza e di vuoto che già provavo. Pensavo a tutte quelle immagini e quei racconti trovati solo sui libri, e venivo pervasa da varie sensazioni. Curiosità, mista a rabbia e paura. Realizzavo che stavo per toccare con mano quel famoso luogo di morte e sofferenza. Ecco: sicuramente mi aspettavo di visitare un posto di sofferenza, ma mai mi sarei aspettata di immedesimarmi in quella gente a tal punto.

Quando si arriva al campo di concentramento, il primo particolare dal quale si viene rapiti è la famosa scritta, ARBEIT MACHT FREI.

L’apposizione della frase all’ingresso di tutti i campi di concentramento fu ordinata dai tedeschi, e significa “il lavoro rende liberi”. Essa fu creata da un prigioniero polacco, che, per manifestare il suo dissenso, decise di forgiare la lettera B al contrario. Una scritta alquanto sadica, che per i prigionieri rappresentava una salvezza che non sarebbe mai arrivata. La scritta costituisce l’ingresso del campo, che, come tutto il campo stesso, è immerso in un silenzio tombale. Disturbato solo dal vento che scuote gli alberi, e dallo stridere delle cornacchie. Si percepisce già una sensazione strana, i brividi scuotono, ed inizia a farsi sentire il dolore e la sofferenza di chi ha vissuto quell’orrore. Nel silenzio, si odevano grida mute.

Riguardo la mappatura del campo, come sono dislocate le sue varie parti?

Il campo di concentramento si divide in tre parti, di cui solo le prime due sono visitabili. Il Konzentrationlager, ossia il vero e proprio campo di concentramento; il Vernichtungslager di Birkenau, ossia il campo di sterminio; il Monowitz, ossia il campo di lavoro.

Il Konzentrationlager comprende vari blocchi. Inizialmente vi è una immensa distesa di terra dove erano disposti gli alloggi dei militari tedeschi. Continuando a camminare, su entrambi i lati, sono disposti i vari alloggi dei prigionieri ebrei. Il tanfo di umido, e del legno vecchio, all’interno, era notevole, ed ancora vivo. Non si riusciva a respirare. Le emozioni, dentro, scalpitavano. Si arriva al muro della fucilazione, dove i prigionieri poco desiderati (omosessuali, malati, etc) venivano prima imprigionati, poi fucilati. Qui vi è un mazzo di fiori sempre freschi. E poi al blocco 11, soprannominato blocco della morte: vi si trova una prigione orribile, con celle strette circa 1m x 1m, nella quale venivano imprigionati cinque ebrei per volta, in piedi. E le camere a gas: stanzoni vuoti, muri alti, e silenzio. Laddove tanta disperazione ha preso forma, tanta sofferenza si è evoluta in sacrificio umano. Il cuore in gola. E poi i forni crematori

Il muro della fucilazione.

Immedesimarsi in quella gente è facile da subito, soprattutto se dopo tutto ciò, si visita il museo a loro dedicato: fotografie, indumenti, occhiali, valigie, protesi, capelli, divise a righe bianche e blu. Vestiti di bambini. E te li senti passare accanto, te li vedi li, massacrati di lavoro, a morire di fame e a temere il freddo e la neve, contenti di andare a fare una doccia, in realtà letale.

Birkenau

Il Vernichtungslager di Birkenau dista 300 metri, qui arrivavano vagoni gremiti di deportati. Anche qui, si cammina tra resti di baracche, di dormitori, di bagni, ed i ruderi (o quel che resta) delle camere a gas.  

Cosa ti ha colpita maggiormente?

È difficile descrivere quello che ho provato, in quel luogo. Ed è difficile pensare anche a qualcosa che mi abbia colpita più di tutte. Dal campo si esce storditi, sconvolti, con le lacrime agli occhi ed una morsa al cuore. Quando leggi sul muro “Dio, se esisti, devi chiedermi scusa”, non hai più neanche le parole per commentare. Forse quello che più mi ha turbata è stato il pensiero di tutta quella gente con il destino già segnato, strappata ai loro affetti e alle loro case, dove non avrebbero fatto più ritorno. Mi sono chiesta costantemente come abbia potuto, l’uomo, arrivare a tanto, sterminando i suoi simili. O addirittura facendo esperimenti farmacologici sulla razza umana, prendendo come cavie proprio gli ebrei. E poi morivano di fame, avevano razioni di cibo e di acqua scarsissime, a tal punto che per sopravvivere un genitore sottraeva il cibo al figlio. Lavoravano fino allo sfinimento, al freddo, deperivano, scavavano fosse che sarebbero state le loro stesse tombe. Le donne, per pregare, non avevano un rosario, ma le palline ricavate dalla mollica del pane. Ci sarebbe un immenso, da raccontare, le emozioni ti assalgono e ti divorano, e non si riescono a trattenere le lacrime.

Cosa consiglieresti a chi vuole andare a visitare il campo?

Per chi vorrebbe visitare il campo, consiglio di munirsi di una forza d’animo non indifferente. Non serve avere una buona preparazione in storia in quanto i libri non raccontano tutto quello che è successo realmente. Consiglio vivamente di non portare con sé persone troppo piccole in quanto quello che si vede e si vive è molto forte. Bisogna avere la consapevolezza di quello che si sta per vivere, ed essere pronti psicologicamente. Non se ne esce indenni. Ma è sicuramente una esperienza da vivere.

(Foto nell’articolo: Annalisa De Chirico)