Chi è Godot?
Nessuno lo sa. Neppure Beckett che a Godot ha dato la vita.
Chi è Godot?
Questa domanda potrebbe tranquillamente essere posta a mille persone e mille persone risponderebbero in maniera diversa.
Ebbene, signore e signori, di Godot non si sa quasi nulla. Solo qualcosina, che non è neanche tanto indispensabile. Si sa che ha una lunga barba bianca e che non fa praticamente nulla, dal mattino fino alla sera.
Sappiamo che su una strada deserta di campagna, sperduta in chissà quale angolo del mondo, sotto un salice piangente – che senza foglie non piange neanche più – ci sono due uomini, Vladimir ed Estragon, che lo stanno aspettando. Da ore? Da giorni? Da anni? Probabilmente sì. Aspettano entrambi che finalmente Godot arrivi.
Quasi sicuramente quei due vagabondi lo staranno attendendo ancora adesso, l’uno togliendosi il cappello e scrollando via la polvere e l’altro tentando di togliersi un benedetto stivale di gomma da un piede che non vuole proprio uscire.
Sono lì, poveri Cristi, ad attendere … e attendere … e attendere …
La monotonia è scandita dall’arrivo di un ragazzino, che ogni giorno va dai due per dire ancora una volta che Godot quel giorno non arriverà e che il suo arrivo sarà rimandato all’indomani.
Ci sarebbe da chiedersi, stupefatti: ma davvero esistono due tizi, abbandonati chissà dove. nel nulla, che aspettano l’arrivo di qualcuno che non arriva mai?
Certo che no! Certo che sì!
Godot, Estragon, Vladimir, il ragazzetto, persino il triste salice senza foglie sono tutti figli della penna di uno straordinario autore della letteratura inglese, Samuel Beckett, uno dei più illustri esponenti del “teatro dell’assurdo”, vissuto negli anni del secondo conflitto mondiale e morto nel 1989.
Quando Beckett decise di scrivere questa tragicommedia nel 1952, Waiting for Godot (in italiano, Aspettando Godot), fu perché sentiva l’esigenza di mettere, prima su carta e poi in scena, il turbamento provocato dai recenti orrori del nazismo, della guerra, della Shoah, dell’uomo che ne uccide un altro senza un perché. Le bombe già da qualche anno hanno smesso di esplodere, le urla hanno smesso di salire al cielo, ma se ne sente ancora l’eco, perché nulla sarà più come prima. Non si può dimenticare, non si può cancellare il dolore come fosse un cancro maligno da rimuovere. Quello stivale al piede di Estragon non verrà più via.I due uomini non riescono a comunicare fra loro, si dicono frasi a metà, si ripetono le stesse parole all’infinito. Si fanno proposte assurde, si fraintendono, chiusi, bloccati in un contesto per cui soffrono, ma di cui non possono fare a meno. Non andranno mai via da quella strada: aspettano che qualcuno arrivi e cambi qualcosa. Dopo aver scartato l’ipotesi non concretizzabile del suicidio, Estragon crolla: “Didi … non posso andare avanti così”, dice. Vladimir propone di rimandare il suicidio al giorno dopo, a meno che Godot arrivi e li salvi. Non solo dalla morte, ma dal circolo vizioso di cui sono schiavi. Si dicono pronti ad andare via, ma il sipario si chiude con loro ancora fermi là, immobili.
Allora chi è Godot?
Molti dicono che sia Dio, anche perché in inglese “God” quello vuol dire. Col diminutivo francese “-ot”, starebbe quindi a significare “Piccolo Dio”, anche se Beckett lo ha sempre negato.
Per altri, Godot è la speranza. La speranza che qualcosa cambi, l’attesa di quell’evento che ti salvi dall’oblio in cui ti trovi e ti faccia rinascere, come l’araba fenice che sorge dalle ceneri.
Certo, la tragicommedia è da inserire nel difficile contesto del secondo dopoguerra, ma quante volte ci siamo sentiti Vladimir o Estragon? Quante volte avremmo detto “io non ce la faccio più!”, ma l’istante dopo abbiamo sempre sentito una vocina nel cuore che ci consolava e ci spingeva a restare?
La speranza è qualcosa di molto più grande di quello che pensiamo. È l’ancora di salvezza che ci fa andare avanti e non l’illusione che qualcosa di brutto cambi. Sperare è vivere e non prendersi in giro.
Ad essere sinceri, chi scrive spera che per i due vagabondi ci sia un lieto fine, che un giorno Godot arrivi e i due corrano in lacrime, commossi, ad abbracciarlo. Forse non è quello che Beckett pensava, ma ognuno è libero di immaginare il finale che desidera.
Perché tutti, in fondo, meritano che le proprie speranze si realizzino, soprattutto coloro per i quali la speranza è tutto ciò che rimane a cui aggrapparsi per vivere. E per uscire dalle trappole di cui si è prigionieri.


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Solo una cosa mi descrive perfettamente: un irrefrenabile istinto verso la scoperta e la conoscenza di me stesso, nelle situazioni e nei contesti. Le mie radici traggono quotidianamente nutrimento da Cristo, dalla musica e dal cielo, in qualunque sfumatura questo decida ogni giorno di mostrarsi a me. Un po’ come il Piccolo Principe di De Saint-Exupery, peregrino di pianeta in pianeta, scoprendo, vivendo, osservando, arricchendomi e mettendomi sempre in discussione. Il mio cuore, però, appartiene solo alla mia rosa. Ricerco e ascolto. Dove andrò? Non lo so…