Quando si parla di archeologia l’immaginario collettivo restituisce subito l’immagine di giovani e aitanti Indiana Jones o di seducenti Lara Croft alle prese con la scoperta di tesori inestimabili, in lotta perenne con il cattivo di turno.
Invece l’archeologia è una professione come le altre, per la quale bisogna studiare anni, fare esperienza sui cantieri universitari e infine sperare di trovare un lavoro. Precario, molto precario.
Qual è il ritratto tipo di un archeologo italiano?
Hanno provato a farlo gli archeologi della CIA, acronimo che sta per Confederazione Italiana Archeologi, la prima associazione di categoria nata in Italia, ormai nel lontano 2004 e che rappresenta una buona fetta di archeologi del nostro Paese.
L’occasione per fare il punto sulla professione archeologica è il progetto europeo Discovering the Arcaheologists of Europe che ha promosso un’indagine su migliaia di archeologi in tutta Europa.
I dati raccolti hanno permesso di indagare diversi aspetti della vita professionale degli archeologi italiani: dalla formazione al mondo del lavoro, dalle tipologie contrattuali alle committenze, dalle retribuzioni alla questione di genere.
Dunque chi è l’archeologo tipo in Italia?
L’archeologo tipo in Italia è una donna di 37 anni che lavora prevalentemente per enti pubblici come libera professionista a Partita IVA o con contratti a progetto, raramente come dipendente.
Principalmente impegnata negli scavi, opera anche in uffici, laboratori e biblioteche, meno spesso nei musei.
La nota dolente che emerge dal report è la retribuzione: infatti parliamo di un compenso annuo di 10.700 euro a fronte di un curriculum che contempla nella gran parte dei casi, oltre a una laurea, anche titoli aggiuntivi (specializzazione, dottorato o post-dottorato).
Dunque siamo di fronte a persone altamente specializzate con alle spalle spesso anni di gavetta ed esperienza, ma che percepiscono una retribuzione non in linea con standard accettabili.
Gli archeologi italiani sono perlopiù liberi professionisti a Partita Iva e quindi non godono di nessuna forma di tutela. Questo deficit diventa tanto più evidente quando parliamo di maternità: per le archeologhe italiane infatti è difficile riuscire a coniugare un lavoro che spesso richiede fatica fisica e presenza costante sul cantiere, con la possibilità di mettere su famiglia. Per questo motivo si evidenzia una maggiore mortalità professionale delle donne intorno ai 37-38 anni, quando la nostra archeologa tipo è costretta a lasciare il lavoro o a cambiarlo in favore di un’occupazione maggiormente tutelata.
L’immagine che viene fuori dunque è molto lontana da quella di avventurieri sprezzanti del pericolo che armati di frusta vanno in giro per il mondo a scoprire civiltà perdute: gli archeologi italiani sono invece professionisti preparati che necessiterebbero di maggiore riconoscimento sociale, di maggiori tutele e di retribuzioni che possano permettere di fare dell’archeologia un lavoro e non un hobby per ricchi annoiati.
Link utili
http://www.discovering-archaeologists.eu/italy.html
Antonella Falcone
[ Fonte: Web ]