“E se vorrai far bene attenzione, ti accorgerai che gli uomini sprecano gran parte della vita facendo il male, la massima parte non facendo nulla, la vita intera facendo altro”.
(Seneca)
Vorrei dedicare la riflessione di questa settimana al tema del tempo, il quale insieme allo spazio è parte costitutiva, ontologica, del nostro essere: noi portiamo i segni della nascita, della crescita e poi del declino. Parlare del tempo è parlare della vita e della morte, sia questa intesa come fine di tutto sia come passaggio a qualcos’altro. Parlare del tempo, in ultima analisi, vuol dire parlare di noi.
“Il tempo –come scriveva Seneca – è la cosa più preziosa che abbiamo. E noi non abbiamo poco tempo, ma ne abbiamo perso molto”.
E il filosofo stoico, nella sua opera “De brevitate vitae”, passa in rassegna numerosi esempi (come per esempio il giocatore di scacchi e il donnaiolo) di coloro che perdono tempo, usando il linguaggio e il lessico dell’economia, della contabilità e della finanza, volendo sottolineare il fatto che questa gente bada di più alla “iactura temporis”, cioé allo spreco e alla perdita di tempo, che non a fare il bilancio dei loro giorni.
Agostino in questo elenco aggiunge anche la figura del filologo: “Tutti mi spiegavano se la parola “homo” si dovesse pronunciare con l’h o senza h, ma nessuno mi spiegava l’uomo”.
Con il filosofo Martin Heidegger possiamo distinguere due tipi di tempo: il tempo lineare, cioè il tempo oggettivo, degli orologi, riconosciuto da tutti e il tempo esistenziale, cioè il tempo soggettivo, il tempo dell’intensità degli attimi e non degli istinti, proprio di ciascuno di noi.
Mentre il primo è misurabile, il secondo è incalcolabile, indiviso e immoto, come l’amore.
Infatti ci chiediamo: è possibile calcolare l’intensità e la durata di un amore nel cuore di un uomo o di una donna?
Oggi, nel 2015, ci sono diverse questioni che emergono riguardo al tema della temporalità: innanzitutto c’è il tentativo da parte dell’uomo di allungare la vita a tutti i costi. Ma il vero problema di fondo è: allungare la vita agli anni o gli anni alla vita?
Poi si ha il cosiddetto “provincialismo del tempo”, cioè la riduzione del tempo al solo presente, con una lettera superficiale e distorta del “Carpe diem” di oraziana memoria.
Infine, il tempo è ciò che l’uomo è sempre intento a cercare d’ammazzare, ma che alla fine ammazza lui.
«Ammazzare il tempo» è un’espressione presente in molte lingue e riflette l’angosciosa attesa di chi è immerso in un’esistenza infausta o di chi, annoiato, non trova più nessun sapore nel vivere. Alla fine, però, il tempo si trasforma in una mannaia che si chiama morte e, forse, in quel momento si recrimina perché il tempo è finito così presto.
«Ammazzare il tempo» è, per alcuni autori, come un “ferire l’eternità”.
Questa idea è profondamente cristiana: nel tempo, che è l’ambito in cui è chiamato a operare, l’uomo prepara il futuro che sta oltre la frontiera della morte. Quindi, sporcare, sciupare e dissolvere le nostre ore è predeterminare il proprio destino ultimo.
Kahlil Gibran scriveva:
“Voi vorreste misurare il tempo, che è smisurato e immisurabile.
Vorreste fare del tempo una corrente sulle cui rive sedervi a guardarli fluire.
Chi di voi non avverte che il suo potere d’amare è senza limiti?
Ma se dovete nella vostra mente scandire il tempo in stagioni, lasciate che ogni stagione cinga tutte le altre, e che l’oggi abbracci il passato col ricordo, ed il futuro col desiderio”.