Ho eseguito un gesto irreparabile, ho stabilito un legame.
(Jorge Luis Borges)

«Sconvolta mi sono addormenta. Sconvolta mi sveglio perché ho sognato di perdere tutti i denti. Quanto sangue! Quel bagno poi: ameno! E tu lì, quasi di fianco. Quanto piangevo mentre mi si riempiva il volto di sangue e tu lì, un millimetro dietro le mie spalle. Non dicevi una sola parola. Io piangevo e tremavo, la bocca si riempiva di saliva e tu non dicevi niente. Eri là, non ti muovevi di un passo. Quando erano caduti tutti, non un attimo prima, solo quando il disastro era totale, singhiozzando ti dicevo: “ora dobbiamo riattaccarli” e piangevo pensando senza dirlo: “come?”. Non vedevo soluzione, ma sapevo che dovevamo riattaccarli e non ho provato mai lo sconforto vero di chi avrebbe dovuto invece pensare che era impossibile rimetterli a posto. Piangevo, disperata, più per l’incredulità che per il resto, non sentivo alcun dolore fisico, mentre tu eri lì e non dicevi una sola parola. Eppure eri la mia certezza».

 

Ho letto un messaggio così, o forse l’ho scritto, non ricordo. O non voglio ricordare. Certo è che è esistito.

Potete leggerci qualsiasi cosa, dalla nonna che vi dice: “morirà qualcuno o farai soldi”, a Freud che avrebbe incolpato vostra madre anche per questo: “ha represso in te l’idea di un orgasmo. Perdere i denti rappresenta il raggiungimento di un orgasmo”, alla psicologia moderna secondo cui sognare di perdere i denti indica l’esistenza di una repressione di qualunque genere: professionale, affettiva, sessuale.

Io, onestamente, no. Ci leggo la figura muta dietro le spalle. Inizio a ricordarla: mi sarà stata descritta o il sogno era il mio? Non lo so.

Capelli riccissimi, lunghi oltre il collo, il volto serio e riflessivo, lo sguardo di chi ti vede bene e non ti sta guardando. Braccia lungo il corpo, un passo dietro la tua spalla destra, un dietro che però non permette alle tue lacrime di coprire quello che vede la tua coda dell’occhio: i riccioli. Non ha nessuna reazione davanti a tutto quel sangue, non ti asciuga le lacrime, non prova a fermarle, non dice niente in un momento in cui non c’è nulla da dire. È là, non si schioda, non cambia espressione: no, non è là. È molto oltre. Non è nei tuoi denti sparsi, non è in quel sangue che non la smuove, non è nelle lacrime che lascia andare: è nelle tue gengive e molto oltre. Fin dentro le viscere dell’unica parte fissa della tua bocca, quella che, senza nessuna evidenza pratica possibile, dovrebbe riaccogliere e ridare un posto fisso a quanto è caduto d’improvviso senza farti sentire alcun dolore fisico, ma uccidendoti l’anima e regalandoti il terrore puro. Quanto sangue! Quanto?

Una persona. Una. L’unica al mondo che non ti prende in giro con la consolazione di un momento o la fatica di “cercare parole che non trova per dire cose vecchie con il vestito nuovo” (ogni tanto scappa il juke box che è in me).

Le persone. Nella vita di ognuno. Le persone sono talmente importanti. Quanto le parole, che sono una storia a sé.

Ma le persone. Alcune fuggono, altre ci sfiorano appena, altre le sfioriamo e non ce ne rendiamo conto, per altre diventiamo noi il Diego di Frida: “ho avuto due disgrazie nella vita. Essere investita da un tram e Diego. Diego è stata di gran lunga la peggiore”, recitava indicativamente così. Altre ancora sono il nostro Diego, o il nostro tram. Oppure ambedue le cose. Ci può andare peggio che a Frida. Terribile!

E poi ce ne sono di rarissime, come quella con i capelli ricci, più ricci che io possa pensare.

Le persona della Relazione suprema. Della circolarità. Del rapporto scevro da regole morali ed etiche, in lotta con tutto e con sé stessa, che è completamente poggiata a te eppure resta perfettamente in piedi: anche per te.

Non è moglie, non è marito, non è amante, non è fratello, non è sorella.

È amica. Amica, con la maiuscola che non fa di lei la più importante, ma rende il sostantivo un nome proprio.

Se non avete mai provato la sensazione di sapere che esiste un alito di vita al mondo pronto a ridere quando ridete, piangere quando piangete, arrabbiarsi quando vi arrabbiate, prendervi a parolacce quando lo meritate, abbracciarvi fino a morirne per poi notare in un attimo che avete lo smalto sbreccato, prendervi la mano, fissare il dito senza alzare lo sguardo per non imbarazzarvi sapendo bene però, che mentre lo fissa vi sta chiedendo dove siete e cosa vi succede, perché voi detestate le mani sciatte… io prego perché vi accada. Perché ogni uomo ed ogni donna ha il sacrosanto diritto di poter avere una persona siffatta al proprio fianco. Quella che ama oltre sé stessa, sul serio. Come nemmeno una madre può. Perché ad Amica non devi nascondere niente, Amica non ha bisogno di educarvi o essere educata. Non ha bisogno di voi e non vi menziona nemmeno nei suoi racconti: quasi nessuno riterrebbe utile far parola dell’aria che respira. Eppure la respira.

Vi auguro di avere la possibilità di mostrare a qualcuno la totale pienezza della vostra fragilità: è un dono che Dio non regala, non è gratis, non lo è affatto. Ma nella Sua misericordia, in verità, aspetta che sia ognuno di noi quello in grado di capire che di circolarità abbiamo bisogno, di tempo, di persone. Basterebbe compiere lo sforzo di riconoscerle e di ammettere con un pizzico di umiltà che “io inizio ad esistere solo nel momento in cui tu mi vedi”.

L’autoreferenzialità è la caratteristica umana più bieca che io conosca. In mezzo a tutte le scempiaggini che un uomo porta con sé, lei è la peggiore. Uccide la Relazione. Uccide l’uomo. Uccide il Bene Supremo. Uccide Dio. E lo lascia lì, morto, quasi che Nietzsche avesse ragione. Ma io lo so, Nietzsche non aveva ragione: Dio non è morto.

 


FonteDisegno per la foto di copertina: credits di Luigi (elle) Minervini
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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.